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Lenny e l’opera immortale dalle diverse letture
Musical ◆ West Side Story, il capolavoro di Leonard Bernstein, registra al LAC uno strepitoso successo che aggiunge due repliche
Sabrina Faller
Con West Side Story Leonard Bernstein (1918-1990) scrive una delle pagine più ispirate, scintillanti e coinvolgenti dell’intero Novecento musicale. Un amalgama semplicemente perfetto. Un musical? È una definizione che gli va stretta. Piuttosto «un’opera che valica i confini del suo genere», come l’ha definita il musicologo Michele Girardi, e che corrisponde alle aspirazioni di gloria permanente ovvero, perché non dirlo, di immortalità attraverso la musica, del compositore ebreo americano di origine ucraina.
L’orchestra di venti elementi diretta da Grant Sturiale, avvince il pubblico con un suono travolgente
L’idea è del geniale coreografo Jerome Robbins con cui Bernstein ha già lavorato e di quell’idea i due discutono fin dal 1949: si tratta di realizzare un musical ispirato a Romeo e Giulietta di Shakespeare. In un primo momento la vicenda dei due clan rivali si configura come lotta fra ebrei e cattolici, ma in seguito i Montecchi e i Capuleti si trasformano in due bande di ragazzi emarginati e violenti, gli immigrati portoricani Sharks e i sedicenti americani bianchi Jets. Romeo è Tony, di origine polacca, amico del capo dei Jets Riff (il Mercuzio della situazione), mentre Giulietta è la portoricana Maria, sorella di Bernardo (il Tebaldo della situazione), capo degli Sharks. Le corrispondenze con la drammaturgia shakespeariana sono puntuali: Bernardo uccide Riff e Tony uccide Bernardo per vendicare l’amico. Diverso il finale, in cui Tony viene ucciso da Chino, amico di Bernardo e innamorato di Maria, e Maria sopravvive, mentre le due bande conoscono un’effimera riconciliazione.
Per la prima volta il musical affronta temi gravi come l’immigrazione, il razzismo, la disoccupazione, il disagio giovanile. Bernstein scopre subito il nodo del problema: «la cosa più importante – scrive nel suo diario - è fare un musical che narri una storia tragica in termini di commedia musicale e usando solo tecniche da commedia musicale, senza cadere nella trappola “operatica”. Possibile farlo? Finora qui, in questo paese, non ci si è riusciti».
Il librettista Arthur Laurents è coinvolto nel progetto fin dalle prime fasi, ma fra dubbi e impegni di lavoro si arriva alla seconda metà degli anni ’50 senza aver concluso nulla. Al trio già affiatato si aggiunge il giovane compositore Stephen Sondheim, cui è affidato l’incarico di scrivere i testi per i songs. Si tratta di armonizzare, attraverso danza e movimento, musica e parole, la dimensione shakespeariana e quella dell’oggi metropolitano, il linguaggio alto della tragedia e quello infimo dei ghetti giovanili. La scelta collettiva di affidarsi al linguaggio diretto e immediato del corpo trova in Jerome Robbins il grande inventore di una coreografia capace di esprimere violenza e sensualità, tenerezza e passione.
Nel ’56, invitato ad esprimersi sul musical davanti al pubblico televisivo americano, Bernstein dichiara: «Ci troviamo in una situazione simile a quella del teatro popolare in Germania poco prima dell’avvento di Mozart. Allora, nel 1750, la grande attrazione era il Singspiel, che non era altro che l’Anna prendi il fucile di quei giorni. Anche Il flauto magico è un Singspiel: di Mozart, però. È come se questo fosse il nostro grande momento nella storia della musica, come se la nostra ricchezza di talenti creativi in quest’epoca fosse una necessità storica.» E aggiunge: «Noi abbiamo il jazz e con esso forse l’inizio di una nuova forma musicale. Attendo proposte. Non si fa avanti nessuno?».
West Side Story approda sulla scena di Broadway nel 1957, e con esso gli americani trovano il loro Singspiel e il loro Mozart. Neppure Bernstein sa esattamente cosa sia il musical: «si trova da qualche parte fra variété e opera». Ma riesce a inventarlo, o meglio a inventare una nuova forma di musical, costruendo un lavoro che coniuga melodie stile Broadway con vari stili jazz e con ritmi ispanizzanti, talvolta mischiando nello stesso brano jazz e melodia.
Una delle tante meraviglie di questo capolavoro è che offre diversi piani di lettura. E può essere amato e capito anche da chi non sa nulla di Shakespeare o di Singspiel. I musicologi vi scoprono impensabili segreti: una fuga di Beethoven che si nasconde nel celebre quintetto, una reminiscenza wagneriana nelle pagine finali, una complessità strutturale che non ritroviamo nei musical precedenti né nei precedenti lavori di Bernstein e soprattutto quell’elemento unificante della partitura, l’intervallo di tritono, il vecchio «diabolus in musica» che in West Side Story fa capolino dappertutto e conferisce alla musica quella sospensione e tensione percepibili anche all’orecchio più sprovveduto. Nel 1961 dal musical è tratto il film diretto da Robert Wise e Jerome Robbins che porta a casa dieci Oscar e, mentre si susseguono le produzioni teatrali in tutto il mondo, nel 2000 per la prima (e per il momento unica) volta, a dieci anni dalla morte del compositore, il Teatro alla Scala apre le porte a un musical, West Side Story appunto, in una serata memorabile, presenti in sala i figli di Lenny.
La produzione giunta al LAC nei giorni scorsi, che ha riscosso un gradimento di pubblico eccezionale – tanto che si sono dovute aggiungere due repliche – diretta dal regista Lonny Price, ricalca fedelmente l’originale di Broadway, come lui stesso ha dichiarato nell’intervista pubblicata sulle nostre pagine nell’edizione del 15 gennaio. Una nota personale se l’è permessa nell’allestimento scenografico, che insiste sulla presenza di cartelloni pubblicitari appesi ai muri degli edifici dell’Upper West Side di Manhattan (quartiere demolito poco dopo le riprese del film di Wise, e la cui demolizione è «registrata» all’inizio dell’omonimo, recente film di Spielberg), cartelloni che incitano all’acquisto di elettrodomestici e grosse auto, un modo questo per alludere polemicamente al falso mito dell’American Dream, realizzabile soltanto per gli americani bianchi e irraggiungibile –benché sempre presente davanti ai loro occhi- per gli immigrati portoricani. Anche i dialoghi non sono stati cambiati di una virgola, non concedono nulla alla stretta attualità, mostrando di non averne alcun bisogno. Nulla è invecchiato di West Side Story, musica e parole, coreografie e libretto sono freschi e ammalianti come lo erano nel 1957. L’orchestra di venti elementi (ma all’orecchio parevano molti di più), diretta da Grant Sturiale, avvince il pubblico con un suono travolgente, esaltato dall’eccellente acustica della sala. La compagnia, composta di oltre trenta performers, è come deve essere un’ottima compagnia americana da grande musical, con interpreti che sanno essere cantanti, danzatrici e danzatori, attrici e attori. Una gioia per gli occhi e per il cuore, lo scintillio di un classico che è entrato ormai a far parte del patrimonio culturale dell’intero pianeta.