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Dal cremino alla mostra è un attimo

Intervista  ◆  Roger Eberhard, zurighese, di casa a Berlino, racconta l’ispirazione artistica nata dalle immagini riprodotte sui cremini
/ 22/01/2024
Luca Fiore

Il rito del caffè ha spesso ispirato gli artisti. Il primo a rappresentarne una tazzina è stato forse Francisco de Zurbarán. Poi si sono accodati Renoir, Manet, Van Gogh e molti altri. Ma sono stati sopratutto i cantautori a celebrare una bevanda che, spesso e volentieri, è metafora di qualcos’altro: «L’amour sans philosopher / C’est comm’ le café / Très vite passé», cantava Serge Gainsbourg. Colore misterioso, gusto deciso, aroma esotico. Facile tirar fuori poesia da una bevanda così nobile. Roger Eberhard, fotografo zurighese, classe 1984, si è invece concentrato su di un comprimario della regale tazzina: il cremino. Sì, la piccola dose di panna da aggiungere al caffè, servita nei bar di tutta la Svizzera. La confezione di plastica è chiusa da una linguetta di alluminio su cui, tradizionalmente, è riprodotta un’immagine rotonda grande come una moneta. Eberhard ne ha fatto prima una mostra, intitolata Escapism, presentata al festival romando Image Vevey, a quello giapponese Kyotographie e alla galleria berlinese Robert Morat. Oggi, quel lavoro è diventato un libro (Éditions Images Vevey, 2023). Si tratta di immagini di spiagge esotiche, iceberg maestosi o deserti incontaminati, che suscitano un sentimento di Wanderlust, soprattutto in un piccolo Paese senza sbocco sul mare come la Svizzera. Un invito, mentre si beve una tazza di caffè, a fuggire dalle preoccupazioni della vita quotidiana. «Sono sempre stato affascinato da come questi piccoli oggetti, diffusi ovunque nel nostro Paese, siano stati un vettore di fotografie che ha influenzato il nostro immaginario collettivo di svizzeri», spiega Eberhard.

In quasi tutte le immagini che ho scelto c’è, in qualche modo, un riferimento alla Storia dell’arte. C’è l’onda di Hokusai, la pubblicità della Marlboro usata da Richard Prince, la palma dei paesaggi di Apocalypse Now

È un oggetto che appartiene alla vita quotidiana.
Ed è piccolo. I francobolli, ad esempio, raramente riportano un’immagine fotografica. Negli ultimi 50-60 anni è stato il modo più diffuso di condividere fotografie prima dell’avvento dei social network.

Come ha trasformato questi oggetti in opere d’arte?
Ho raccolto una collezione di linguette: avevo tutte quelle prodotte tra il 1968 e il 2008. Erano migliaia. Ho acquistato diverse raccolte e le ho riunite in un’unica, enorme collezione. E poi ho scelto i soggetti che mi interessavano. Volevo concentrarmi sui paesaggi, legati al tema del cambiamento climatico. Sono arrivato a individuarne 32. Li ho montati su una lastra di alluminino rendendoli perfettamente piatti, poi li ho fotografati con un apparecchio ad altissima risoluzione, in modo da poterli ingrandire di quasi cento volte. In questo modo si può vedere la texture in quadricromia con cui sono stampate. Poi ho preso ciascun file e l’ho ritoccato con Photoshop in modo che la sagoma di ciascun pallino colorato fosse perfetta. Per il resto, sul soggetto, non sono intervenuto.

Che cosa ha scoperto guardando e selezionando queste immagini?
Sono fotografie che vengono guardate per una frazione di secondo. Per funzionare su una superficie di circa due centimetri e mezzo di diametro, i soggetti devono essere molto semplici e centrati. Si tratta quasi di archetipi o di cliché subito riconoscibili. E mi sono chiesto: sono venute prima queste immagini o la loro memoria collettiva? Ho pensato che fosse un aspetto meraviglioso su cui questo lavoro aiutava a riflettere.

Perché si è concentrato sui soggetti che possono essere collegati al tema del cambiamento climatico?
I ghiacciai si stanno sciogliendo, gli iceberg scompaiono, le spiagge del Pacifico meridionale vengono sommerse e le barriere coralline stanno morendo. Oppure i deserti sono immagine di come si potrebbero trasformare i nostri paesaggi se non facciamo qualcosa per evitarlo… Non so se il pubblico percepirà questa chiave di lettura. Ma c’è un altro aspetto che mi intriga della selezione che ho fatto.

Quale?
In quasi tutte le immagini che ho scelto c’è, in qualche modo, un riferimento alla Storia dell’arte. C’è l’onda di Hokusai, la pubblicità della Marlboro usata da Richard Prince, la palma dei paesaggi di Apocalypse Now, c’è un riferimento generale ai pallini di John Baldessari. È stato un lavoro molto divertente in questo senso. Ho iniziato a farlo durante il lockdown. Non potevo viaggiare. Io e mia moglie avevamo un bambino piccolo… È stato ciò che mi ha permesso si andare in giro per il mondo restando chiuso tra le mura di casa mia.

Per il suo lavoro precedente, Human Territoriality, dedicato all’idea di confine, aveva dovuto invece viaggiare molto.
Sì, quella era una serie di immagini più classica: sono fotografie di luoghi attraversati da confini del passato, ex linee di demarcazione che si pensavano eterne e che invece, per i motivi più diversi, si sono spostate. Può essere successo per il cambiamento del paesaggio, la caduta di imperi o lo scioglimento di un ghiacciaio.

Quello era un approccio documentario, Escapism invece è un’opera più concettuale.
In realtà, anche quel lavoro aveva una forte componente concettuale. E, dal punto di vista documentaristico, non era così rigoroso. Non mi faccio problemi a ritoccare le immagini se questo è utile all’idea del progetto, perché non mi interessa restituire una testimonianza fattuale a tutti i costi. In questo mi sento più a mio agio nel contesto dell’arte contemporanea che in quello della fotografia documentaria.

Tornando ai «cremini» di Escapism: è un tema che viene capito fuori dalla Svizzera?
Ho l’impressione che gli stranieri lo trovino ancora più stimolante.

Come se lo spiega?
Per chi non è svizzero è un argomento esotico e un po’ bizzarro. Per noi è qualcosa di molto familiare e radicato nella nostra memoria collettiva. Qui collezionare linguette dei cremini è considerato qualcosa di fortemente connotato, e non sempre in modo positivo. È un hobby di qualche zio un po’ all’antica, per il quale si può provare qualche imbarazzo. Diciamo che non è molto glamour. Per contro, chi non è cresciuto nel nostro Paese, si approccia al tema senza pregiudizi. In questo, il pubblico giapponese che ha visto la mostra di Kyoto era il più avvantaggiato.

E lei, il caffè come lo prende? Con o senza cremino?
L’espresso lo bevo nero. Se lo prendo lungo aggiungo il latte. Niente cremino.