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Dove e quando

Morandi 1890-1964, Palazzo Reale, Milano, fino al 4 febbraio 2024 Ma-do 10.00-19.30; gio 10.00-22.30.

www.palazzorealemilano.it


«Quello che conta è toccare l’essenza delle cose»

Mostre  ◆  Ancora fino al 4 febbraio Palazzo Reale a Milano dedica una grande esposizione a Giorgio Morandi; curato da Maria Cristina Bandera, direttrice della Fondazione Roberto Longhi, l’allestimento è di grande impatto visivo e non solo
/ 22/01/2024
Elio Schenini

Negli ultimi anni capita sempre più spesso (sicuramente sarà capitato anche a voi) di incontrare amici e conoscenti che volendoci mostrare una fotografia che hanno scattato iniziano a scorrere freneticamente l’indice sullo schermo del cellulare, per scrollare tra le migliaia di immagini disparate che intasano fino all’ultimo bit la memoria del loro telefono. Raramente la ricerca si conclude con un esito positivo, quasi sempre il compulsatore di turno finisce infatti per desistere quando si accorge che la messa in standby della relazione interpersonale si sta protraendo troppo a lungo e rischia di mettere in imbarazzo l’interlocutore.

«Nei suoi quadri, così apparentemente semplici, così rigorosi, c’è sempre un luogo, un punto da cui spiare l’infinito»

Del resto, credo sia un’esperienza generalmente condivisa quella per cui la gran parte di quella sterminata moltitudine di fotografie che scattiamo ogni giorno nel disperato tentativo di arrestare la vaporosa inconsistenza in cui si dissolvono le nostre esistenze, alla fine rimanga sospesa negli hard disk dei nostri smartphone come in un limbo dove le intravvediamo solo fugacemente mentre siamo sempre alla ricerca di un’altra immagine. In questo continuo scivolare delle nostre vite sulle superfici sempre più lucide e prive di attrito dei dispositivi elettronici di cui ci circondiamo, Baricco qualche anno fa (era il 2010) aveva visto il senso di una mutazione antropologica: con l’arrivo di quelli che lui chiamava i nuovi barbari la ricerca della profondità che per secoli aveva caratterizzato l’umanità non aveva più alcun valore perché nella nuova era digitale «la superficie è tutto, e in essa è scritto il senso». La tesi di Baricco poteva apparire seducente anche per la consueta gradevolezza affabulatoria con cui era sostenuta e la sua analisi aveva sicuramente il merito di cogliere alcuni nodi fondamentali della trasformazione in atto nel mondo della cultura, ma l’entusiasmo con cui lo scrittore torinese salutava questa presunta rivoluzione aveva lasciato molti interdetti, anche perché nella sua apologia della superficie traspariva abbastanza evidente la sua idiosincrasia nei confronti del mondo accademico, che della profondità è tradizionalmente il custode.

Che nell’era della proliferazione epidermica delle connessioni, la profondità non sia affatto un vecchio arnese arrugginito di cui possiamo fare tranquillamente a meno, ci siamo trovati a pensarlo (anche se in realtà non avevamo mai avuto dubbi) poche settimane fa mentre percorrevamo le sale di Palazzo Reale a Milano dove è ospitata la grande mostra dedicata a Giorgio Morandi curata da Maria Cristina Bandera, direttrice della Fondazione Roberto Longhi. Osservando le nature morte dipinte dall’artista bolognese, che sono generalmente appena un po’ più grandi dello schermo di un tablet o di un portatile, risulta immediatamente chiaro che il sottile gioco di variazioni da cui ha origine la straordinaria sinfonia che costituisce il corpus della sua opera, non è ipotizzabile senza quell’immersione totale in un microcosmo ridotto ai minimi termini che sta al centro della sua ricerca.

Dalla sua camera da letto che era anche il suo studio, in via Fondazza a Bologna, dove ha trascorso tutta la sua vita come in una cella monacale, affiancato dalle tre sorelle, Morandi si è caparbiamente concentrato su alcuni semplici oggetti, disposti in maniera sempre diversa sopra un astratto piano di appoggio. Scatole di latta, caraffe, brocche, ciotole, bottiglie, vasi di fiori, sono questi oggetti banali della quotidianità, scelti in funzione della loro geometria e dell’armonia o dei contrasti che produce il loro accostamento, a ritornare continuamente nei suoi quadri. Tuttavia, anche se a prima vista potrebbe apparire così, Morandi non è affatto «un pittore di bottiglie», come qualcuno lo ha definito. La sua è una pittura che non è per nulla interessata alla riproduzione del reale in quanto tale, ma che mira a coglierne l’essenza. In un’intervista degli anni Trenta, parlando della propria ricerca, lui stesso ha affermato che «quello che importa è toccare il fondo, l’essenza delle cose». Non a caso, alcuni critici, facendo leva sulla serialità dei suoi dipinti, hanno visto un parallelismo tra la sua opera e quella totalmente astratta di Piet Mondrian, il padre del costruttivismo. In realtà, come ha suggerito acutamente lo storico dell’arte e poeta francese Yves Bonnefoy, l’artista del Novecento che più si avvicina a Morandi è probabilmente Alberto Giacometti. In entrambi gli artisti, nel primo a partire dalle cose, nel secondo dalle persone, vi è infatti una continua e ostinata necessità di confrontarsi con la realtà per sondarne la dimensione metafisica. Che non vi sia «nulla di più surreale e di più astratto del reale» è, del resto, un’altra celebre affermazione morandiana.

Dopo la brevissima adesione al Futurismo e la ben più significativa stagione della Metafisica, Morandi, tra la metà degli anni Venti e il 1964, anno della sua morte, ha trascorso le sue giornate scavando nell’opacità impenetrabile dell’essere a partire dagli oggetti che disponeva con minuziosa e sapiente regia di fronte al suo sguardo, accostandoli in configurazioni sempre diverse. Forse è anche per questo che nel suo mondo pittorico sono banditi riflessi e trasparenze. Non solo lasciava che la polvere si depositasse sugli oggetti che utilizzava, ma in alcuni casi, soprattutto se si trattava di vetri, ne dipingeva le superfici per evitare che qualsiasi riflesso proveniente dal mondo circostante potesse distrarlo dalla concentrazione che richiedeva la solida presenza della cosa che stava di fronte a lui.

Grazie a questo lungo e tenace scavo che lo ha portato a interrogare in profondità l’essenza dell’atto pittorico, Morandi è riuscito a riportare in superficie, sulle superfici pastose, dalle geometrie rigorose ma imprecise, dalle modulazioni tonali raffinate, quasi monocromatiche delle sue tele, nelle quali si avvertono gli echi di Piero della Francesca, di Zurbaran, di Chardin e di Cezanne, un’immagine senza tempo dell’enigma che sta alla base dell’essere.

Come ha osservato Bernardo Bertolucci, accostando l’opera di Morandi all’aleph borgesiano, «nei suoi quadri, così apparentemente semplici, così rigorosi, c’è sempre un luogo, un punto da cui spiare l’infinito». Quel luogo, quel punto che invece, a dispetto di tutti i nostri sforzi, non riusciremo mai a trovare nella miriade di immagini che accumuliamo inutilmente nei nostri telefonini.