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Flavio Paolucci, ritratto d’artista

Incontri  ◆  A Soletta, dove questa settimana inizia il Festival del cinema, Villi Hermann con il suo film omaggia Paolucci
/ 15/01/2024
Nicola Falcinella

Nel 2021 il ticinese Villi Hermann era stato omaggiato dalle Giornate del cinema di Soletta con una retrospettiva completa della sua attività di cineasta e produttore. Domenica vi fa ritorno con il suo più recente documentario, Flavio Paolucci – Da Guelmim a Biasca, un ritratto dell’artista della Val di Blenio (nella foto), selezionato per la sezione Panorama del 59esimo festival (www.journeesdesoleure.ch) in programma da mercoledì fino al 24 gennaio.

Il film osserva Paolucci nel suo laboratorio e lo segue nelle camminate nel bosco intorno a Biasca che lo ispirano continuamente. C’è pure il deserto marocchino di Guelmim che fu fondamentale nella sua formazione artistica. Il documentario sarà proiettato a Blenio il 31 e il primo febbraio al Lux a Lugano e al Rialto a Locarno.

Villi Hermann, in che modo conosceva Paolucci prima del film?
Lo conoscevo soprattutto tramite le sue opere, specialmente le stampe. I quadri si vedono in una mostra, le stampe o le litografie sono più accessibili, si possono comprare e capitano spesso sotto gli occhi. Così avevo acquistato due piccole stampe 10-15 anni fa perché mi piacevano. Di persona ci incontravamo a qualche vernissage di una sua mostra o di un pittore locale, scambiandoci sorrisi e parole di circostanza. Con il film ci siamo frequentati per un anno.

L’idea del documentario da dove nasce?
Un giorno ho notato che il cinema non se n’era mai occupato, a parte qualche breve servizio in tv. Ho pensato che fosse il momento giusto, considerata anche la sua età. Ho preso contatto e sono andato a trovarlo. Gli ho fatto vedere i film che ho fatto su altri artisti ticinesi, Sam Gabai. Presenze e Walker. Renzo Ferrari. A Flavio è piaciuta l’idea, però ha detto subito che quando crea non vuole nessuno intorno. Sembrava un problema insormontabile, ma abbiamo risolto installando tre videocamere nell’atelier per due giorni: lui alla mattina arrivava e le accendeva e alla sera le spegneva. È stata un’idea stimolante, ma c’era pure il rischio che in quelle giornate non creasse niente.

Dal film emergono molte cose in comune tra voi due. L’aveva già capito o l’ha scoperto facendolo?
Me ne sono accorto con il film. Abbiamo davvero tante somiglianze: il ’68, l’essere stati a Parigi quasi nello stesso periodo, le esperienze in Magreb – lui in Marocco e io in Algeria –, l’essere tornati in Ticino, l’indipendenza, il fare tutto o quasi da soli. L’unica cosa molto diversa è il rapporto con la musica. Normalmente i pittori ascoltano musica mentre lavorano, lui sta nel silenzio totale dell’atelier. Il sonoro del bosco e il silenzio sono sufficienti per creare. Invece io ascolto molta musica e la seguo.

Quale musica ascolta?
Ascolto musica in macchina e in ufficio. Sono un vecchio fan dell’hard rock anni 60 e 70. Non saprei per quale ragione, forse per l’andare contro certi canoni. Anche la musica elettronica allora era contro l’establishment. Poi mi piace la musica moderna di Nono, Maderna o Bussoni. Anche nel cinema seguivo l’underground americano o inglese come Jonas Mekas o Derek Jarman: mi hanno aperto gli occhi sull’esistenza di un altro cinema rispetto a quello che racconta soltanto una storia o deve far ridere.

Però nel documentario c’è addirittura un concerto!
Il concerto nel bosco è stata un’idea in contrapposizione al pittore che non ascolta musica. È una scena di finzione con lui che cammina e incontra un gruppo di musicisti che provano. Paolucci, che vive il mondo chiuso nell’atelier, va da solo nel bosco e incontra la musica composta da Zeno Gabaglio, che lavora con me da tanti anni. È un tentativo di non nascondere la musica del film, per far capire che la musica può essere anche visibile, non è solo da ascoltare. Ho filmato il concertino con quasi tutti primi piani sui musicisti, gli strumenti e i gesti: anche loro fanno parte del film come Paolucci che cammina nel bosco.

Si vede l’artista al lavoro ma sono presenti anche le sue opere del passato.
Mi interessava molto il suo trascorso, i quadri realizzati negli anni 60 e 70. Conoscevo quello che ha fatto dopo il 1980 e volevo scoprire il resto. I suoi lavori del ’68 e dintorni sono poco noti in Ticino, perché Paolucci partecipava ai movimenti dell’arte pop oltre San Gottardo. A volte, mentre filmavo, tirava fuori i quadri e parlava. È sempre stato disponibile, anche se dovevamo coordinarci con Alberto Meroni, che ha fatto le immagini. Volevo filmare la fonderia nel Mendrisiotto, una cosa unica, ne conoscevo l’esistenza, ma non ero mai entrato. Mi piace sempre scoprire qualcosa nel mio vicinato mentre filmo: mi veniva in mente Andrei Rublev di Andrei Tarkovski.

Colpisce molto che faccia tutto da solo.
È ancora l’artigiano che fa tutto e controlla tutto, dai materiali al trasporto dei pezzi. Da una parte è l’opposto di Alberto Giacometti, che diventò urbano stabilendosi a Parigi, ma un po’ lo ricorda. È molto stimato, ma possiede una modestia che mi piace. È cosciente del suo valore, ma non se la tira, resta defilato. Si ispira molto alla natura, usa il legno o il sasso, non per moda, ma ha sempre preso i materiali della sua valle: raccoglie la fuliggine dei vecchi camini per fare il colore nero! È un uomo taciturno, per questo ho fatto il film.

Colpisce anche quanto la sua arte negli anni sia diventata essenziale.
Sì, tende all’essenzialità, tenta di eliminare le cose che gli sembrano inutili. A una certa età non ha più bisogno di molto per esprimersi. Anziché meditare davanti alla tela, va a camminare e si ispira mentre cammina. È una cosa alla portata di tutti. È sufficiente guardare fuori.

In più c’è l’aspetto politico.
In lui – fin dagli anni 60 e nel ’68 – c’è sempre stato l’impegno politico. E poi la guerra in Vietnam che in quel periodo segnò un po’ tutti. Mi è piaciuto il suo omaggio a Pasolini, che non conoscevo. E c’è il monumento sul Monte Ceneri dedicato ai combattenti ticinesi nella guerra civile di Spagna. Circa 80 partirono dal Ticino e un piccolo gruppo di anarchici da Biasca a combattere per la repubblica. Quasi nessuno si ricorda del monumento ed è triste che l’abbiano distrutto e anche rubato l’ascia.