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Corrado Augias, mattatore instancabile

Dopo 63 anni il giornalista ha lasciato la Rai per un nuovo programma con Alessandro Barbero su LA7
/ 01/01/2024
Marco Züblin

A quasi 89 anni, Corrado Augias rimane una mitologica pietra angolare della cultura in televisione; la pietra di un edificio che sta tra l’assente e il periclitante, nemmeno un cantiere. E non è una bella cosa, per la latitanza di (valido) ricambio che questo eterno accamparsi del Nostro pesantemente indizia; forse il solo Giorgio Zanchini sembra avere le carte in regola per garantire la sopravvivenza della figura di mediatore culturale nell’audiovisivo italofono.

Accanto a una produzione letteraria fluviale, Augias ha fatto cultura in Rai per oltre mezzo secolo, prima di sbarcare a LA7; dalla musica, ai libri, alla cronaca, alla rilettura di fatti politici, alla storia, alla religione, all’architettura. Ora ha iniziato una nuova avventura con La Torre di Babele; puntate monografiche su temi diversi, dalla crisi dell’ordine mondiale americano (con Alessandro Barbero quale spirito-guida) alla questione giovanile (con Michele Serra).

Augias è, ovviamente, uguale a sé stesso: aplomb da grande saggio, un filo di sorridente arroganza e di serena degnazione, un’aristocratica sprezzatura che mette i suoi interlocutori (anche, come spesso avviene, più cogniti di lui) sul banco degli scolari di un maestro benevolo, in una sorta di magica bolla di bon ton e di minuetti argomentativi. In ogni modo, si intuisce una forte costruzione drammaturgica del programma, che ha schemi chiari e strutture precise, in cui l’apparente naturalezza e casualità del colloquio si inserisce senza sforzo; roba da professionisti veri, non c’è che dire. La Torre di Babele conferma pregi e difetti del fare televisione di Augias, e anche le aporie, i vicoli ciechi e i rischi del fare cultura in quest’epoca di celebrazione dell’ignoranza. Approfondire superficialmente, questo l’imperativo se si vuole sopravvivere in TV; ma il busillis è identificare le modalità giuste per fare autentica mediazione culturale, per analizzare senza pedanteria, ma soprattutto per far capire la complessità del reale a petto delle sirene della semplificazione. Augias è un po’ il santo patrono dei falsi modesti; dice di essere «un seduttore consapevole», come ogni divulgatore culturale.

Ed ecco che si fa in studio una chiacchiera colta e placida che dà, non ai protagonisti (che ben conoscono il gioco) ma al pubblico, il senso e l’illusione di elevarsi al di sopra dell’argomentare binario che è ormai la cifra del pensiero contemporaneo. Programmi di questo genere sono potenti generatori di alibi, come se bastasse farsi scivolare addosso un programma, un’urbana soave conversazione e qualche bella formula per riempire il vuoto di informazione, di formazione e di cultura che abita le platee della TV. Come sempre bisogna attingere a Fiorello, lucido analista: lamentando il passaggio a LA7 di Augias, ha detto che se guardi Augias «ti arriva a casa la laurea», senza bisogno d’altro appunto, per mera e poco faticosa osmosi televisiva.

Le conversazioni di Augias seminano spunti che, in altri momenti, avrebbero indotto qualcuno a prendere in mano un libro; soprattutto per merito dei suoi interlocutori, che nell’ovatta della conversazione pur riescono a offrire spunti di riflessione. Ma questo non avverrà, temo, appunto per il fatto che questi programmi sono ormai diventati il modo principe (o unico) con cui il pubblico presume a torto di acquisire dignità culturale. In questo senso, la funzione di stimolo se ne va a ramengo; certo non per colpa del programma, ma di questa epoca di tremenda brutalità semplificatrice.

Intellettuale laico, ateo devoto, uomo di sinistra che fa l’unanimità nell’intero arco costituzionale, affabulatore principe, pifferaio un po’ altero; Corrado Augias resta comunque una figura ineliminabile, di straordinario impatto, stimato anche dalla massa di coloro che ben si guardano dal seguire uno dei suoi programmi.

Nel contesto sociopolitico attuale in Italia, un personaggio che vale comunque la pena di tenersi ben stretto, un nucleo di resistenza minima in un panorama dominato da orde vocianti, da una violenza verbale senza freni e senza contenuti, da un generale sospetto nei riguardi della cultura e del pensiero critico.