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Dove e quando

I have lost and been lost but for now I’m flying high,

Fondazione ICA, via via Orobia 26, Milano fino al 16 marzo 2024.

www.icamilano.it


Il volo alto di Michael Stipe a Milano

Mostre  ◆  La rockstar e le sue opere sono protagoniste alla Fondazione ICA fino al 16 marzo
/ 18/12/2023
Guido Mariani

Ci sono rockstar che smarriscono la strada del successo e perdono quella relazione, affascinante ma spesso rischiosa, con la fama. Michael Stipe invece ha scelto insieme alla sua band, i R.E.M., di allontanarsi pacatamente dal mondo della musica e dallo star system. Il gruppo, dopo una carriera di trent’anni e 90 milioni di dischi venduti nel mondo, ha deciso nel 2011 di interrompere la propria attività.

Oggi, come ha scritto il «New York Times», Michael Stipe, classe 1960, sta scrivendo «senza fretta» un nuovo capitolo della sua vita e una tappa importante di questa nuova avventura è a Milano dove, fino al prossimo marzo, sarà visitabile la sua prima mostra I have lost and been lost but for now I’m flying high (Ho perso e mi sono perso ma ora volo alto). La personale è ospitata presso la sede della Fondazione ICA – Istituto Contemporaneo per le Arti – ed è stata curata con Alberto Salvadori. Stipe non nasconde la sua emozione per questo debutto: «Durante il lavoro preparatorio – confessa – ho sentito la stessa adrenalina che sentivo quando salivo sul palco: una sensazione assolutamente simile». 120 opere, tra cui alcune mai esposte prima e altre di recente produzione, una selezione che fa luce sugli ambiti della ricerca artistica intrapresa da Stipe negli ultimi anni: sculture in diversi materiali, ritratti e istallazioni multimediali che costituiscono un progetto unitario che ha come filo conduttore l’esperienza della fragilità, con cui ognuno ha dovuto relazionarsi durante la stagione drammatica del Covid. Dice Stipe: «Sono grato alla Fondazione ICA, perché questa mostra realizza un sogno che ho da anni: essere in grado di esporre il mio lavoro in modo da valorizzare qualcosa in cui credo davvero. Amo quello che realizzo e non ho avuto molte opportunità di condividerlo. Cerco di presentare una visione del mondo che appartiene a me, sicuramente unica, ma che spero possa entrare in sintonia anche con altri. È un po’ come entrare nel mio cervello, che non è sempre un posto bellissimo, ma attraverso diversi mezzi cerco di raccontare una storia che si rivelerà a chi avrà la pazienza di seguire questo viaggio».

La mostra è accompagnata anche da un libro fotografico, pubblicato dall’editore bolognese Damiani, Even the birds gave pause, in cui Stipe si concentra sui ritratti che costituiscono una parte rilevante dell’evento espositivo milanese. «Sono appassionato di fotografia da quando avevo 14 anni. Da allora ammiro i lavori di un fotografo come Joel Meyerowitz (uno dei padri della street photography, ndr), una cui antologia è stata appena pubblicata da Damiani. Per me il fatto di avere un libro nello stesso catalogo di un mio punto di riferimento artistico è incredibilmente significativo. I ritratti che sono esposti, che sono anche quelli raccolti nel volume, catturano quel momento unico che si crea tra il fotografo e il suo soggetto. Alcune persone ritratte sono miei amici, altri no. Per ognuno ho cercato di capire che cosa sia il ritratto nella nostra epoca, quella in cui chiunque ha un telefono con cui scatta fotografie continuamente. Il digitale ha cambiato tutto e io cerco di esplorare e comprendere questa nuova realtà».

È inevitabile chiedere del legame con un altro grande della fotografia americana, Robert Mapplethorpe, che ha condiviso parte della sua breve vita con una musa di Stipe, Patti Smith: «Il mio stile fotografico e quello di Mapplethorpe sono molto diversi, ma per me rappresenta una profonda ispirazione. Da uomo queer riconosco che il suo lavoro aveva il coraggio di esplorare tematiche che all’epoca non era per nulla facile affrontare».

Altri artisti vengono chiamati in causa: lo scultore romeno Constantin Brancusi, l’artista concettuale americano Bruce Nauman, la protagonista dell’arte povera italiana Marisa Merz. Nella mostra non c’è, volutamente, lo Stipe cantante, ma si può sentire la voce dell’ex leader dei R.E.M. recitare la poesia Desiderata di Max Ehrman, un inno alla pace, un invito a vivere in armonia con tutte le cose: «Per me ha avuto un profondo significato sin da quando ero teenager. È una poesia che divenne molto nota negli anni ’60. Vorrei che diventasse un riferimento anche per questi tempi».

Esplorare nuove forme di creatività significa anche un diverso approccio: «Scrivere testi delle canzoni richiede predisposizione mentale e può essere incredibilmente semplice quando c’è l’ispirazione, oppure estremamente complicato. Questa esposizione nasce da un lavoro molto diverso fatto con molti materiali e coordinando diversi collaboratori in posti lontani tra loro. Le opere sono nate in parte in America, a New York, Los Angeles e Athens, e in Europa, a Berlino e in Italia. Un lavoro che ha richiesto tempo, energie, ma che mi ha reso molto felice. Amo l’arte e amo quello che mi offre, allo stesso modo in cui ho amato e amo la musica. Musica e arte mi hanno sempre fornito un percorso emozionale che mi permette di capire il momento che sto vivendo e mi trasportano in un posto migliore».

E infatti la musica non è scomparsa dall’orizzonte di chi cantò Losing my Religion. Questa primavera ha inciso del materiale all’Electric Lady Studios nel Greenwich Village dove, riferiscono le cronache newyorkesi, è stato visto in compagnia di Taylor Swift, di Matt Haley, leader dei 1975, e del cantante e produttore Jack Antonoff. Tutto è però ancora avvolto nel mistero.