azione.ch
 



La ricetta del capolavoro? Un miscuglio di forme

Cinema  ◆  Anticonformismo, narratori letterari e scene cartonate nei lavori di Wes Anderson ispirati ai racconti di Roald Dahl
/ 04/12/2023
Manuela Mazzi

Gestione creativa del narratore e decisi colpi di coda. Abbiamo guardato con ammirazione gli ultimi lavori di Wes Anderson, regista e sceneggiatore anticonformista che viola le regole standard del fare cinema, piega i colori a suo piacimento, produce cortometraggi in controtendenza ai lunghi spropositati, sostituisce la recitazione espressiva con fiumi di parole incalzanti, ma soprattutto rinuncia alla trasposizione totale andando ben oltre la stessa. Lo diciamo subito, ci soffermeremo più sulla forma, che non sulla trama.

I lavori – acquisiti da Netflix – cui ci riferiamo sono in ordine di comparsa: La meravigliosa storia di Henry Sugar (mediometraggio di 39 minuti, presentato quest’anno a Venezia), quindi Il Cigno, Il derattizzatore e Veleno (di 17 minuti l’uno).

Per non lasciarvi proprio a digiuno: il primo parla della straordinaria storia di un uomo che riuscì a vedere con gli occhi bendati; Il Cigno, crea angoscia mettendo in scena estremi atti di bullismo subiti da un ragazzino; ne Il derattizzatore, come si può intuire, arriva in paese uno sterminatore di ratti (il nostro meno apprezzato); Veleno è tensione allo stato puro: un serpente mortale si è rannicchiato sull’addome di un uomo costretto a rimanere immobile per non rischiare di svegliarlo facendosi mordere.

Ammettiamo la nostra ignoranza: non avevamo mai visto altri film di Anderson, d’altro canto questi li abbiamo guardati con occhi non di cinefili o cineasti, ma con quelli di chi le storie cerca di raccontarle nella forma scritta; questione di codici. Non per volontà ma per inevitabilità. Anzitutto per il fatto che i quattro titoli sono gli stessi di altrettanti racconti di Roald Dahl (1916-1990), scrittore per l’infanzia, dicono, sebbene a noi vien da paragonarlo all’italiano Buzzati, i cui testi avevano spesso un tale portato disturbante da render quelle «fiabe» ben altro che storielle per bambini. In secondo luogo, per come sono stati tradotti, o meglio per come non lo sono stati.

Secondo testimonianze dirette del regista (trovate in rete), abbiamo compreso che – pur essendo appassionato di Dahl – inizialmente non riusciva a immaginare come trasformare questi testi in film per il cinema, perché ciò che a lui piaceva era proprio la voce del narratore. Narratore con il quale Anderson ha dunque giocato, adattandogli una scenografia ben aderente, ovvero, creando una cornice «libro» dove farcelo stare, e dunque rinunciando alle situazioni reali.

Da qui il regista è partito per sviluppare, di pellicola in pellicola, un’evoluzione del set: da pop-up caratterizzato da costanti e a volte frenetici cambi, tipo carosello, a una versione teatrale più moderata e minimalista nel secondo, passando poi dal doppio scenario (centro paese e campo) nel terzo, per finire con Veleno che è ambientato in un unico luogo, una sorta di teatro di posa (sitcom), ripreso anche dall’alto. Stessa evoluzione l’abbiamo notata nei personaggi: se nel mediometraggio la recitazione è pressoché inesistente (ottima la capacità inespressiva di Benedict Cumberbatch, nella foto), man mano aumenta, per arrivare a chiudere il ciclo di nuovo con l’attore inglese che incarna nel suo volto tutta la tensione narrativa di Veleno.

Ma veniamo ai colpi di coda: sono delle vere e proprie genialate che sfidano le trame originali, e ci pare superino quelle del maestro britannico. Laddove, infatti, Anderson sembra voler aderire al suo mito letterario, restandogli fedele a tal punto da riportare con precisione le stesse battute, l’originale sequenza e la medesima storia in tutte le sue minuzie, allo stesso tempo è così insolente da modificare la fine dei suoi racconti. Più precisamente ha agito omissioni o brevi aggiunte: (attenzione spoiler) ne Il Cigno, il ragazzino precipita a terra e la madre si dispera (cut); nella versione letteraria, il ragazzino dice di avere male a una gamba e la madre chiama il medico. Ne Il derattizzatore, Anderson aggiunge una battuta che regala al lettore un ulteriore disgusto: girandosi verso la vetrina dove è appeso l’annuncio della scomparsa di una persona, il narratore si interroga sulla ragione per cui i topi non abbiano rosicchiato il cibo-avvelenato, alludendo a qualcosa di più appetitoso a loro disposizione. È ancora uno scambio di battute, quello che ha aggiunto a Veleno, introducendo un’ambiguità che nel testo non esiste.

Se tutti questi aspetti generano forme surrealiste, la gestione del narratore presente in scena, che si riferisce a sé stesso in terza, crea veri e propri cortocircuiti divertentissimi e intensifica l’esperienza filmica. Anche in questo caso è evidente l’evoluzione formale.

La meravigliosa storia di Henry Sugar è una matrioska: il primo narratore (cioè Roald Dahl interpretato da Ralph Fiennes) racconta di un uomo che trovò un libro, che raccontava di un medico, il quale raccontava di un uomo che vedeva da bendato; e così è anche nel testo scritto; era una narrazione in terza persona invece Il Cigno, per cui Anderson ha forzato la mano, facendo una cosa molto interessante: fa raccontare la storia dall’uomo che è diventato il ragazzino bullizzato (anch’esso sulla scena, in secondo piano). Ora, avendo letto il racconto di Dahl, sappiamo che effettivamente il ragazzino sopravvive, ma l’ambiguità della chiusura del film rimescola le carte e fa sgranare gli occhi allo spettatore. Questo proprio perché, forte della presenza dell’uomo, si è tentati di pensare che il ragazzino se la caverà sempre in ogni caso, mentre alla fine ci si convince che muoia schiantato. Singolare anche la scelta fatta ne Il derattizzatore, dove il narratore è un personaggio interno diretto incaricato di recitare un po’ in terza e un po’ in prima plurale, dato che parla anche per conto di un altro personaggio; è interna diretta, ma con un io narrante più focalizzato, invece, l’esposizione dei fatti nell’ultimo, Veleno, che per noi resta il più riuscito dei tre corti.

Ricapitolando e tagliando con l’accetta, siamo davanti a dei capolavori dalla mano stilistica riconoscibile al cento per cento (tanto da creare un genere suo), perché Wes Anderson è riuscito a ideare e produrre film che stanno in equilibrio tra racconto scritto (si parla di forma del linguaggio), libri pop-up (cambi di scena), teatro di narrazione (mono-ambientazioni e falsi monologhi di narratori che si susseguono), TV (vedi sitcom) e cinema (si parla di sfondamento della quarta parete e singolari inquadrature).