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Bibliografia
Ingeborg Bachmann, Invocazione all’Orsa Maggiore, a cura di Luigi Reitani, con una nota di Hans Höller. Adelphi, Milano, 2023.

Si può continuare la lettura qui con il carteggio tra la Bachmann e Max Frisch.


L’eco della salvezza

Feuilleton  ◆  Uscita per la prima volta nell’agosto del 1956 presso la casa editrice tedesca Piper, Adelphi pubblica la raccolta poetica che rese celebre la poetessa austriaca. Invocazione all’Orsa Maggiore catturò anche l’attenzione di Max Frisch.
/ 20/11/2023
Luigi Forte

Fu una lettura sorprendente che la lanciò sulla scena letteraria di lingua tedesca. A Niendorf, un piccolo paese sul Mar Baltico, nel maggio del 1952 la ventiseienne austriaca Ingeborg Bachmann entusiasmò con le sue poesie il pubblico del Gruppo 47, cioè il fior fiore dei nuovi scrittori del dopoguerra, tanto da far dire al critico Walter Jens che «l’ ora del mutamento era suonata» e che la lirica di quella giovane di Klagenfurt «ne aveva scandito i rintocchi». Ancora oggi tale reazione non stupisce se si sfogliano le sue due raccolte di poesie, Il tempo dilazionato (1953) e Invocazione all’Orsa Maggiore (1956), quest’ultima appena edita con un ricco apparato iconografico da Adelphi nella traduzione e con un eccellente commento critico del germanista Luigi Reitani, già curatore dell’edizione tedesca, morto prematuramente di Covid.

Ma la giovane Bachmann, che nel 1950 si era laureata a Vienna con una tesi sulla filosofia di Heidegger, scrisse altresì nel corso degli anni Cinquanta tre radiodrammi, e più tardi racconti e romanzi come il suggestivo e misterioso Malina e gli incompiuti Il caso Franza e Requiem per Fanny Goldmann.

«L’amore ha un trionfo e la morte ne ha uno, – ricorda – (...) Noi non ne abbiamo»

A cui si sommano pagine saggistiche, per esempio su Wittgenstein e Musil, e le splendide lezioni di Francoforte che tenne nel 1959-1960, dove l’idea di letteratura è affidata, prima di ogni conoscenza, alla forza dirompente di un pensiero nuovo, che le dà impulso e sostanza. Il mondo della scrittura diventa per lei, nel tempo, luogo di sfida e ricerca impossibile di un’identità, nella consapevolezza di una vocazione che può annichilire e mal si concilia con il fluire dell’esistenza. «Ci sono due esseri in me, – scriveva già la diciannovenne Ingeborg – , l’uno non capisce l’altro. Temo quello che ama tanto la vita. Perché diventa troppo potente».

Eppure nei suoi versi, che aprono spazi illimitati verso nuove realtà, evoca spesso ciò che un tempo temeva. Impossibile sottrarsi al loro fascino, alla folgorazione delle immagini che dipanano una segreta, quasi mistica sensazione del mondo, ai toni malinconici, al ritmo talvolta singhiozzante scalfito dal dolore, all’urlo dell’amore incapace di spezzare l’incantesimo perverso che separa i sessi. E a cui tuttavia si rivolge accorata nell’ultima lirica della raccolta, Canti lungo la fuga, alla ricerca di redenzione: «O amore, che le nostre scorze/rompesti, gettandole via, il nostro scudo,/la difesa del tempo e la ruggine brunita degli anni!».

Nelle quattro sezioni del libro si percepisce una costante tensione di fondo, come a suo tempo ricordò lo scrittore Heissenbüttel: il contrasto fra esperienza traumatica e progetto utopico. Tra la sopraffazione di un mondo patriarcale e violento e le immagini che anelano all’emancipazione del destino femminile. Non a caso la Bachmann prese a suo tempo le distanze dal mondo del padre e dalla comunità nazionalsocialista immergendosi nella scrittura come in una forma di emigrazione interna. Eppure la sua vita scorreva, ricca di entusiasmi e contraddizioni, di grandi amori ed amicizie: con Paul Celan, Max Frisch, il musicista Henze, con il quale soggiorna in Italia, tra Ischia, Napoli e Roma.

Con l’ebreo Celan, uno dei più grandi lirici di lingua tedesca del dopo-guerra, fu amore fin dall’inizio, filtrato da parole lucide e oscure e da irriducibili silenzi. Lui l’aspetta a Parigi dove si è trasferito, «colmo di impazienza», mentre lei lo trasfigura in seducenti visioni: «Per me tu sei il deserto e il mare e tutto quanto è mistero». Poi si accentuano i malintesi e le reciproche accuse che coinvolgono anche il nuovo com-pagno di Ingeborg, lo scrittore Max Frisch. Resta il loro dialogo in versi, dove la vita filtra imprevedibilmente bizzarra fino ad annullarsi, per ambedue: Paul cadavere nella Senna nel 1970 e lei, che lo ricorda nel suo romanzo Malina, vittima, tre anni dopo, di un incendio scoppiato nella sua abitazione romana in circostanze mai chiarite.

Ma la novità della lirica della Bachmann trae anche sostanza dalla tradizione e dal passato: la grande varietà di forme metriche e strofiche, talune cadenze romantiche e citazioni da Saffo, Lucrezio e Virgilio, così come da poeti moderni a lei ben più consoni come Rilke e Trakl. La parola nata dal silenzio e con «grandi margini bianchi», secondo l’e-spressione di Paul Éluard, dev’essere garanzia di verità, rispondere a un preciso rigore etico, come aveva sentenziato il connazionale Karl Kraus, e così la invoca nella poesia Discorso e diceria: «Vieni, grazia di suono e fiato,/fortifica questa bocca,/quando la sua debolezza/ ci atterrisce e frena». Ma la condizione del poeta in un mondo inautentico, tra le rovine e i drammi della storia sintetizzati nelle metafore della poesia Porto morto, resta quella dell’esilio interiore, della perenne fuga, con reiterate immagini di partenze e di viaggio. Eppure non viene meno la speranza che proprio la poesia e l’arte siano lo strumento più idoneo contro l’alienazione della civiltà moderna. Non esita a dare impulso all’arte come utopia con uno sguardo verso «ciò che è perfetto, verso l’impossibile, l’irraggiungibile, sia esso amore, la libertà o qualsiasi entità pura», come dirà nel citatissimo discorso del 1959 Dall’ uomo si può pretendere la verità. E una luce le giunge anche dal suo soggiorno a Ischia e Roma, di cui parlano le immagini della terza sezione della raccolta, quel «paese primogenito», come suona il titolo di una poesia, in cui «mi destai a guardare./Allora vita mi giunse», piena d’ entusiasmo e di aperture sul mondo. Ed è come una rinascita, in un’atmosfera di festa e di gioia, che sprigiona dalla poesia Canti da un’ isola e lascia infine spazio a nuova vita. «Quando risorgerai,/ quando risorgerò, – recitano i versi – / non vi sarà pietra dinanzi alla porta» e allora si potrà essere testimoni di un mondo purificato e libero. Ma più avanti, l’ultima lirica del suo canzoniere rievoca una malinconia senza illusioni: «L’amore ha un trionfo e la morte ne ha uno, – ricorda – (...) Noi non ne abbiamo». Eppure la parola riprende a vibrare, anche se intorno c’è solo un «tramontare di stelle. Riflesso e silenzio». Perché «il canto sulla polvere dopo,/alto si leverà su di noi». Fino all’ultimo, nel suo isolamento romano, Ingeborg Bachmann ha sentito nella poesia e nella scrittura l’eco di una possibile salvezza, che la vita da tempo ormai aveva affievolito.

Invocazione all’Orsa Maggiore

«Scendi, Orsa Maggiore,

notte arruffata,

fiera del manto di nubi,

dagli antichi occhi,

stelle occhi,

nella macchia affondano,

scintillanti,

le tue zampe con gli artigli,

stelle artigli,

vigili noi pascoliamo

gli armenti,

pur da te ammaliati,

e diffidiamo

dei tuoi fianchi sfiniti,

degli aguzzi

denti dischiusi,

vecchia orsa.

Un conto di pigna:

il vostro mondo.

Voi: le sue squame.

Dagli alberi dell’inizio

agli abeti della fine

la rivolto, la sbalzo,

l’annuso, ne saggio

il sapore

e l’abbranco.

Temete o non temete!

Gettate l’obolo nella borsa,

all’uomo cieco

una buona parola,

perché tenga l’orsa

al guinzaglio.

E condite gli agnelli

di spezie.

Potrebbe quest’orsa

Liberarsi,

non più minacciando.

Incalzando ogni pigna,

dagli abeti

Caduta, maestosi abeti alati,

precipitati dal paradiso.