azione.ch
 



La realtà svizzera di Flammer

In memoria  ◆  Omaggio al «decano dei fotografi della Svizzera italiana» nato a Muralto nel 1938 e scomparso la scorsa settimana
/ 20/11/2023
Giovanni Medolago

Ho incontrato l’ultima volta Alberto Flammer solo qualche settimana fa, nella sua Verscio. «Mezzo secolo dopo il primo, Alberto Flammer getta un altro occhio sul Ticino»: così volevo titolare il mio articolo incentrato sulla sessantina di foto inedite contenute nella sua ultima pubblicazione. Questa intervista diventa oggi il mio omaggio al Maestro.

Lui si schermisce quando lo definisco «il decano dei fotografi della Svizzera italiana», ma è davvero così. Lo dicono non solo l’anagrafe (avrebbe compiuto 87 anni il prossimo 25 gennaio), ma soprattutto due libri che – all’inizio degli Anni 70 del secolo scorso – diedero del nostro Cantone un’immagine inedita, lontana assai dai logori schemi turistici da Sonnenstube, e dunque molto più vera. Entrambi editi da Armando Dadò, il primo, Pane e coltello, cinque racconti di paese, accostava le sue immagini agli scritti della migliore letteratura ticinese dell’epoca: Piero Bianconi, Giovanni Bonalumi, Plinio Martini, Giorgio e Giovanni Orelli. Il secondo, Occhio sul Ticino, era frutto dell’approfondita osservazione delle nostre terre compiuta – come scrisse lo stesso Bianconi, «da due paia d’occhi: uno vecchio, il mio, e l’altro giovane. Uno indigeno, l’altro allogeno». Non era del tutto vero: Alberto Flammer è nato e cresciuto a Muralto (dove iniziò la sua carriera nell’atelier di suo padre Johann) e da anni viveva e lavorava a Verscio. Una carriera che ha scelto di sviluppare facendo capo alla collaborazione con illustri personalità: oltre a quelle già citate, ricordiamo le 1300 foto (!) dedicate al pittore scozzese Ben Johnson e alla sua opera.

Lo avevamo incontrato per parlare della sua ultima pubblicazione, Grenzland Tessin (Ticino terra di frontiera). Modesto come al solito, Flammer ha insistito affinchè all’incontro partecipasse anche Alexander Grass, autore del libro di cui vi ha già parlato il collega Orazio Martinetti (Azione del 17.7. scorso). Cosi è nata questa intervista a due voci.

Dove vi siete conosciuti?
(AG) Ero corrispondente in Ticino per la Radio DRS e il suo libro Occhio sul Ticino attirò subito la mia attenzione. Il nostro primo incontro avvenne anni dopo, nel corso di una sua esposizione al Museo di Intragna.

Dove e da chi è nata l’idea del libro, che reca come sottotitolo Hier und jetzt, locuzione cara a Walter Benjamin: hic et nunc, qui e ora…
(AG) Non volevo scrivere una vera e propria storia del Canton Ticino. Mi sono limitato a sottolineare i cambiamenti nel frattempo intervenuti nella realtà ticinese, grazie soprattutto alle infrastrutture – ferrovia e autostrada – e alle nuove relazioni che queste hanno permesso di instaurare. A nord col resto della Svizzera (che restano sempre un po’ complicate) e a sud con l’Italia, Lombardia in primis.

(AF) Quando Alexander si è rivolto a me per illustrare il suo libro, ne ho approfittato per curiosare nel mio archivio. Ho riscoperte molte foto che avevo dimenticato, e quelle del libro sono tutte inedite!”.

Alexander osservatore politico, Alberto cacciatore di immagini. Insieme illustrate temi come il boom edilizio e la forte immigrazione di Gastarbeiter, (epiteto offensivo), soprattutto italiani.
(AG) Vero, però non sono mai foto per così dire prevedibili, quelle che non ti invitano a una riflessione e che ti spingono invece a un accostamento sin troppo facile.

(AF) Ho seguito da vicino la costruzione della diga della Verzasca e l’avanzare dell’autostrada in Leventina, dove le maestranze impegnate nei lavori erano in maggioranza italiane. Operai che mangiavano «pan e scigola» e accettavano il doppio turno di lavoro pur di metter da parte qualche soldo in più. Se mi è permesso un aneddoto: mi sono definitivamente reso conto della grande immigrazione italiana quando, durante una vacanza sul mare della Puglia, mi son trovato letteralmente sommerso da auto targate CH!

Ci sono immagini che ricordano i Grandi della fotografia, da Andrè Kertesz ai riflessi vitreo cari a Eugène Atget. C’è qualche Maestro che ha particolarmente influenzato Alberto Flammer?
Non qualcuno in particolare, ma confesso che ho parecchio beccuzzato scorrendo le pagine di vecchi album fotografici che custodiva mio papà (il primo era datato 1864), oppure sfogliando la rivista «Camera», dedicata esclusivamente al bianco e nero. Mi sono abbonato nel 1956.

Sempre bianco e nero (b&n) e niente digitale. Eppure Flammer è un mago delle sperimentazioni, pensiamo agli scatti con fotocamera a foro stenopeico. Inoltre le è stato affidato il compito di sviluppare le lastre di vetro di Roberto Donetta («Un lavurà basctard», confessa).
Sperimentazione? Guardi che il foro stenopeico lo usava già Leonardo Da Vinci! In quella occasione mi sono limitato a richiedere un particolare «occhio» alla celebre Carl Zeiss di Jena. E al digitale sinora ho rinunciato perché troppo attirato dai contrasti di luci e ombre che solo il b&n può darti.

Lasciamo Grass e Flammer con un’ultima immagine negli occhi: quella sorridente della loro bella amicizia.