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Mitterrand, la Francia e l'amore per Buzzati

Curiosità  ◆  Il Deserto dei Tartari amato in Francia
/ 20/11/2023
Roberto Festorazzi

François Mitterrand che parla del Deserto dei Tartari di Dino Buzzati? L’accostamento potrebbe apparire alquanto singolare, se non si partisse dalla constatazione che le opere dello scrittore veneto-milanese sono più lette, apprezzate e studiate, all’estero, che non in Italia.

Buzzati giganteggia infatti nel mercato editoriale internazionale della narrativa del Novecento, tanto che i suoi titoli sono oggi tradotti in 35 lingue.

In particolare, da decenni, i francesi gli hanno assegnato un posto di primissimo piano. Ed è l’unico autore straniero cui, nel Paese latino, sia stato reso un riconoscimento del genere.

Già da un’indagine condotta, nel 1988, in Francia, sulle vendite dei livres de poche, emerse, che, sugli otto testi italiani più diffusi, cinque erano di Buzzati.

Per questo, nella nazione d’Oltralpe, ma, più in generale, in tutto il Nord Europa, ci si meraviglia che i suoi compatrioti stentino ancora a considerarlo come uno degli scrittori-chiave del panorama letterario contemporaneo.

La critica, nella Penisola, ha snobbato, a lungo, questo geniale e versatile autore, non solo di romanzi e racconti, ma anche di drammaturgia teatrale, per non parlare del suo estro pittorico e della sua inclinazione alla sperimentazione, con la capacità di innalzare il fumetto, da basso prodotto di consumo dell’industria editoriale, al livello di genere letterario, nel suo pionieristico sconfinamento nei territori della graphic novel: è del 1969, infatti, il buzzatiano Poema a fumetti, che fece scalpore, in Italia, per la rappresentazione, esibita e compiaciuta, del corpo femminile.

Ma torniamo a Mitterrand.

Il fortunato e longevo talk show culturale e librario della tv pubblica francese, Apostrophes, condotto da Bernard Pivot, il 2 luglio 1975 dedicò una puntata alle letture del leader socialista.

L’ospite, presente in studio, rivelò di aver accolto come la «rivelazione di una nuova letteratura» il romanzo di Buzzati, pubblicato da Rizzoli, nel 1940, ossia nel primo anno di guerra, per l’Italia di Mussolini.

Il protagonista della narrazione è il tenente Giovanni Drogo, un ufficiale di prima nomina, che viene assegnato alla Fortezza Bastiani, un avamposto militare situato ai limiti di una zona desertica, regno di nemici, reali o immaginari che fossero: i Tartari, incursori provenienti da Nord.

Il Forte è presidiato da un manipolo di individui segregati dal mondo e confinati in un luogo di desolazione, in attesa di un evento che non è bellico, quanto, piuttosto, un appuntamento metafisico.

Infatti, fin quasi dall’esordio della narrazione, Buzzati precisa che l’arrivo di Drogo coincide con l’inizio della «irreparabile fuga del tempo» che travolge gli affetti, le illusioni e gli impeti di giovinezza, il paesaggio di riferimento, culturale e simbolico-esistenziale, della sua realtà di provenienza, la città, la famiglia, gli amici.

Con l’inesorabile trascorrere degli anni, l’ufficiale «sente il battito del tempo scandire avidamente la vita», ma seguita a nutrire quella «speranza segreta» per la quale compie silenzioso e solitario olocausto di sé.
Alla fine, dopo trent’anni di sterile attesa, in un tempo e in uno spazio «pietrificati», Drogo, promosso nel frattempo a maggiore, è vecchio e malato.

Quando, finalmente, i Tartari si materializzano, e l’odore del sangue sembra spandersi in un’atmosfera rarefatta, Drogo viene allontanato dal Forte, per spegnersi nella stanza di un’anonima locanda.

Nel momento in cui parrebbe decretarsi la sua plateale sconfitta, Giovanni si riscatta, perché incontra la «verità».

L’antieroe confinato nel buio dell’isolamento, nel nascondimento dal mondo, anche dal suo spicchio di «realtà», diventa «eroe» di un incanto poetico privo di gesta eclatanti, ma nella conquista della consapevolezza e della tranquilla coscienza di sé.

La morte che lo ghermisce non è più temuta, non è più nemica, ma rappresenta il vero appuntamento, raggiunto con un processo vitale tormentato e oscuro.

Tutto questo viene ben colto da Mitterrand, il quale commenta: «Ora io penso che questa sia un’opera di una forza straordinaria.

E quest’uomo, che avrà dunque vissuto trent’anni ad attendere principalmente qualcosa di puramente materiale, passando da un piano all’altro ad attendere delle altre cose, non si sa bene quali, è, credo, una sorta di processo simbolico dell’umanità che è alla ricerca del suo spirito, della sua conoscenza.

Allo stesso tempo è una letteratura del fare e del coraggio, di ciò che può compiere un uomo su di sé quando è lasciato a sé stesso ma anche davanti a un paesaggio, quello della sua vita, che non porterà mai quello che si aspetta, ma, purtuttavia, al momento in cui deve morire (ultima pagina di questo libro) lui, quando la morte penetra dentro la sua stanza, comprende improvvisamente la verità, incontra una verità. E non sa nemmeno ancora di preciso bene quale, ma l’ha cercata e si sente degno di essere un uomo».

Conclude il leader socialista: «Dunque, il tema va controcorrente, in tempi di libri in cui non c’è altro che il declino, la decadenza, la fine. Ho trovato che, senza pretendere di giungere ad alcuna morale, senza imporre nulla, si ha un libro che significa - a mio avviso senza alcun dubbio -, il ritorno o l’arrivo di qualche cosa».

La forza del simbolismo allegorico del romanzo buzzatiano, perché fece una tale presa su Mitterrand?

Proviamo a ipotizzare. Lo statista francese fu un combattente volitivo e tenace, nel lungo cammino della sua ascesa al potere, dopo il 1958.

La sua disciplina interiore fu talmente finalizzata all’obiettivo storico da raggiungere – il primato delle forze di sinistra e la loro ascesa al governo in un sistema costituzionale che, agli esordi della Quinta Repubblica, egli aveva considerato dittatoriale – da rappresentare una felice metafora della militare determinazione di Drogo.

A Mitterrand, infatti, si attribuiscono due primati: fu l’unico leader politico a partecipare a quattro elezioni presidenziali, e il solo a “regnare” sul suo Paese per 14 anni consecutivi, dal 1981 al 1995.

Benché gli fosse stato diagnosticato un cancro, fin dal 1982, non soltanto mantenne le redini del governo, nascondendo il suo male, ma portò a termine anche il secondo mandato.