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Ernesto Ferrero, intellettuale d’altri tempi

L’editore gentile che per diciotto anni guidò il Salone del libro di Torino ci ha lasciati la scorsa settimana
/ 06/11/2023
Paolo Di Stefano

Ernesto Ferrero era un intellettuale d’altri tempi. Come editore, amava i suoi autori, li coccolava, discuteva con loro, regalava suggerimenti e idee, era in qualche modo al loro servizio, fossero best seller o no. Aveva imparato da Giulio Einaudi a valutare i libri al di là dei possibili risultati di mercato, anche se poi toccò anche a lui, come direttore editoriale, sorvegliare i bilanci. Ai suoi autori chiedeva il coraggio della novità e non la ripetizione dei codici che già avevano successo. Aveva imparato da Italo Calvino, cui succedette nel 1963 in Einaudi, il lavoro di ufficio stampa, promuovendo i libri presso i giornali non con metodi di marketing ma vantandone i reali pregi stilistici dopo averli letti con attenzione.

Era cresciuto in quella officina culturale torinese in cui, diceva, tutti erano «operai al servizio della rifondazione civile della società». L’unico non operaio era l’editore, il principe Giulio che avrebbe trovato il suo grande ritrattista proprio in Ferrero e nel suo memoir I migliori anni della nostra vita, assoluto capolavoro della memorialistica culturale, pubblicato da Feltrinelli nel 2005. Su questa linea il più recente Album di famiglia, altra meravigliosa galleria di profili di maestri, padri e fratelli elettivi, compagni di viaggio. Nessuno meglio di Ferrero ha saputo raccontare, dall’interno, la cultura italiana del secondo Novecento, e la sua lettura andrebbe consigliata nei licei per far capire ai giovani il fascino irresistibile del lavoro intellettuale.

Nato a Torino nel 1938, Ferrero era uno degli ultimi rappresentanti di una generazione di editori-intellettuali che hanno creduto nell’editoria di cultura come motore della vita civile di un intero paese. Era un uomo elegante, gentile, dal sorriso dolce e dal rigore assoluto quando si parlava di libri. Non amava l’approssimazione e la cialtroneria, esercitava l’ammirazione e la gratitudine per quei maestri con cui aveva a che fare abitualmente nelle riunioni settimanali del mercoledì in via Biancamano, la sede dello Struzzo (il celebre marchio einaudiano): quei consulenti si chiamavano Venturi, Contini, Levi, Bobbio, Calvino, Cases, Segre, Manganelli… Erano il massimo che poteva offrire la cultura italiana e non solo italiana. Non è retorica, è una constatazione che dimostra con quale impegno veniva costruito un programma editoriale che era un progetto civile.

Forte di una lunga e variegata esperienza interna, Ferrero pilotò la nave di Einaudi negli anni impervi della crisi per trasferirsi poi alla Bollati-Boringhieri, in Garzanti e infine alla Mondadori. Lasciata l’editoria, per diciott’anni, fino al 2016, è stato il direttore del Salone del Libro, pure lì navigando in acque non sempre tranquille. Il suo equilibrio e la sua calma erano una garanzia che dava sicurezza anche istituzionale. Ma soprattutto erano la lungimiranza, la competenza, il mestiere a farne un’autorità del mondo dei libri. Un mondo che conosceva anche come autore, essendo scrittore di romanzi storici che mescolavano ricostruzione documentaria e invenzione, in una prosa cristallina, precisa e insieme immaginifica. Con N. Ferrero vinse il Premio Strega nel 2000: è il romanzo degli ultimi trecento giorni di Napoleone sull’Isola d’Elba, narrati con scrupolo e ironia dal bibliotecario dell’imperatore, Martino Acquabona. Già nel 1980 aveva esordito nella narrativa con Cervo Bianco, che evocava la storia fantasmagorica di Edgar Lapiante, un istrionesco impostore, che spacciandosi per capo indiano nel 1924 mandò in delirio gli italiani. Quella vicenda, riscritta, ritornò con un titolo nuovo: L’anno dell’indiano.

Ferrero era affascinato dall’avventura, come il suo amico e maestro Calvino. Era attratto anche dal grottesco, come dimostra il suo amore per Carlo Emilio Gadda, su cui pubblicò una monografia nel 1972, affascinato com’era dalla varietà dei linguaggi (fu anche studioso dei gerghi della mala quattrocentesca). Era uno studioso, un cronista, uno storico, un critico e un narratore. Abitava nel palazzo torinese in cui aveva abitato Emilio Salgari e al «padre degli eroi» dedicò un romanzo corale, Disegnare il vento, affresco di un’epoca che stava conoscendo le automobili, il cinema, i primi aerei. Ultimo ma non ultimo venne nel 2019 Francesco e il Sultano, con cui Ferrero affronta sempre la dimensione favolosa, questa volta seguendo le tracce del poverello di Assisi in viaggio verso la Terrasanta fino all’incontro con il Sultano d’Egitto.

Era un ricercatore curioso, Ferrero, che nella storia andava scoprendo eroi tanto avventurosi da sfidare l’impossibile, l’estremo, il mostruoso (anche Barbablù è stato uno dei suoi personaggi). Era un viaggiatore anche lui, tra i generi letterari. Il saggista restò fedele ai «suoi» Primo Levi e Calvino, protagonista di Italo, il suo ultimo libro (uscito poche settimane fa sempre da Einaudi): dove troviamo, grazie alla penna delicata e incisiva di Ferrero, lo scrittore più ritroso della letteratura italiana ravvicinato e quotidiano come mai l’avevamo visto.

A questo lavoro, così ricco e molteplice, giocato su più piani – operativo, artigianale (il mestiere del libro lo è), critico e creativo – si aggiungeva la sua stessa avventura impossibile, forse la più ardita: quella del traduttore. Non un traduttore qualunque, ma il traduttore di Céline, dove tutti i linguaggi, le invenzioni e i gerghi confluiscono e confliggono. Come diceva Primo Levi, chi esercita il mestiere di traduttore dovrebbe essere onorato in quanto si adopera contro la maledizione di Babele. Anche questo onore è giusto tributare a Ernesto, amico gentile.