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La nuova vita dei film muti e in bianco e nero

Intervista a Jay Weissberg, direttore artistico delle Giornate del cinema muto di Pordenone che si sono appena concluse
/ 30/10/2023
Nicola Falcinella

Chiusa festosamente la 42° edizione, hanno già dato appuntamento alla prossima, sempre a Pordenone dal 5 al 12 ottobre 2024. Le Giornate del cinema muto sono un momento irrinunciabile per chi ama il cinema delle origini, ma anche per chi si vuole avvicinare e scoprire drammi, comiche e brevi documentari di oltre un secolo fa, su schermo grande, in copie restaurate e con travolgenti accompagnamenti musicali dal vivo. Una rassegna che propone opere sconosciute, magari ritrovate per caso in una soffitta, o opere celebri proposte in versioni che le fanno sembrare nuove. Ne abbiamo parlato con il direttore, il critico e studioso americano Jay Weissberg.

Jay Weissberg, ormai la pandemia con le sue limitazioni e preoccupazioni sembra dietro le spalle e Pordenone è tornata a essere la casa di chi ama il cinema muto.
Sì, la pandemia è un ricordo e le Giornate sono tornate quelle che erano, anche se purtroppo ci sono delle assenze, come quella dell’ex direttore David Robinson. Siamo tornati sugli stessi numeri, anche se all’inizio abbiamo avuto delle preoccupazioni perché i numeri dei contagi erano in crescita. In sala ho visto più mascherine rispetto a quelle che vedevo nei festival più recenti, come Venezia, ma va considerato che il nostro pubblico è composto in buona parte da anziani.

Però si vedono anche parecchi giovani e studenti.
Meno male che c’è un’onda di giovani. Abbiamo lavorato tanto sui giovani, per cambiare l’idea che sia solo un festival per anziani. Insieme al Cinema Ritrovato di Bologna creiamo un pubblico nuovo per questo cinema. Bologna è durante l’estate, un periodo in cui è più facile andarci per i giovani, spero che anche da là nasca un interesse nel cinema muto. La percezione è che noi rispetto a Bologna siamo più di nicchia, una parola che odio, però è più facile per i festival dove coesistono cinema sonoro e muto. Noi dobbiamo lavorare ancora di più nella direzione dei giovani.

Pordenone sembra uno di quei luoghi immaginari della bella retrospettiva che avete chiamato Ruritania, dedicata ai film sui regni immaginari. È una città dove il cinema del passato è attuale. Qual è il segreto?
Robinson a inizio festival accoglieva sempre il pubblico con “Welcome Home! Benvenuti a casa”. Queste per noi tutti sono diventate parole dal forte significato. Però a casa i nostri amici e parenti credono che il muto sia arcaico. Ho una nipote, figlia di mia sorella, che dice che i film muti le danno mal di testa. Mi piace l’immagine di un paese mitico, condividiamo lo stesso amore e lo stesso rispetto per il cinema, non solo quello muto. È come un paradiso.

Oltre a Pordenone e Bologna, ci sono altri festival dedicati al muto e anche i festival grandi, come Venezia o Locarno, fanno proiezioni di film muti. È un buon momento per il cinema muto? Può arrivare al grande pubblico?
Credo sia un buon momento. Ho solo la preoccupazione che tanti festival abbiano l’idea che il modo per coinvolgere il pubblico giovane sia proporre partiture moderne, con dj o musica tecno. Facendo così il film sembra vecchio mentre la musica è nuova. E il film diventa solo carta da tappezzeria. È sbagliato anche fare la copia di quel che era allora, non dobbiamo sentire esattamente come nel 1920. Qui abbiamo musicisti sensibili all’epoca in cui furono realizzati i film e attenti all’oggi.

Qui le star sono proprio i musicisti.
Qui i musicisti sono delle star e per ironia sono disposti nel buco per l’orchestra e nessuno li vede. Essi rinnovano i film, aiutano soprattutto i film minori, di serie B. Per me è importante non programmare solo i capolavori riconosciuti: la storia non è fatta solo di capolavori, la storia è costituita da tutti i film. C’è sempre ragione per scegliere di presentare un film e i musicisti aiutano nel renderli attuali.

La serata conclusiva ha visti abbinati due fuoriclasse del muto come Charlie Chaplin e Buster Keaton, i cui volti, non a caso, aprono e chiudono la serie di immagini della sigla delle Giornate.
É un’accoppiata nata per caso. Il musicista olandese Daan Van den Hurk, il più giovane del gruppo dei nostri compositori, mi ha chiamato per dirmi che stava componendo una partitura per Sherlock Jr. di Keaton. Ho fiducia totale nella sua sensibilità e gli ho detto subito sì. In più il film non era mai stato proiettato qui. È incredibile! Però era troppo corto per allestire la serata finale. Avendo saputo che The Pilgrim era in restauro, è nata questa combinazione eccezionale.

In 42 anni è cambiato qualcosa nel festival, nei restauri e nell’idea del cinema muto?
All’inizio il festival era rivolto ai collezionisti più che agli archivisti. Durante il periodo di Robinson, iniziato oltre 30 anni fa, è iniziato un cambiamento e ancora oggi ricevo lamenti da parte dei collezionisti, che si sentono fuori dal festival. Una ragione è che di solito le copie degli archivi sono migliori e i collezionisti raramente restaurano. Il festival è diventato più internazionale, più aperto a varie voci, ai ricercatori e conservatori. Quando sono diventato direttore ho ritenuto importante avere più voci femministe e queer. Con le seconde è più difficile perché ci sono pochi legami, con le femministe lavoro molto, anche con gli studenti per rendere il festival utile ai loro studi. Ho sempre cercato di non essere troppo accademico, di mantenere la passione per il muto, con lato più scolastico. Una delle cose che più amo della comunità, nonostante i discorsi di film theory, filosofia e i saggi accademici, è che quando si proiettano Fairbanks o Keaton o le slapstick c’è tutta la sala che ride. Oppure che piange, come è successo in queste sere per Hell’s Heroes di William Wyler con un coro nella platea della sala. L’emozione funziona sempre, la commedia anche. Non importa se sei uno studente di 18 anni o un professore di 80 che ha scritto cose che anch’io ho difficoltà a capire.

C’è una un regista o un divo o una diva o un aspetto del passato di cui le piacerebbe fare una retrospettiva e non è ancora riuscito?
Mi sento come un bambino in un negozio di giocattoli. Ho tantissime idee, ricevo sempre tante idee e proposte da studiosi e archivisti. Ci sono nazioni poco studiate. L’anno scorso abbiamo riscoperto la grandissima attrice Norma Talmadge che era quasi dimenticata, stavolta in Pecheur d’Islande abbiamo riproposto Sandra Milowanoff, una grandissima attrice francese mai studiata. Il regista e attore tedesco Harry Piel è un caso interessante, era il re del box office tra gli anni ‘10 e ‘20, ma per vari motivi il suo fascino e reputazione sono crollati, anche perché ha fatto film popolari e non ha mai lavorato con grandi nomi. Nel primo film di Piel non andato perduto c’è già un’idea di composizione, anche se la trama non è così chiara. In Rivalen del 1923, dove recita anche, c’è tutto, era un regista già molto attento alla tecnologia: c’è una scena pazzesca con un robot. L’hanno definito il Tom Cruise dell’epoca, non c’è ponte senza qualcuno che cada e ci sono scene di stunt ben inserite nella trama e bilanciate, non solo numeri a sensazione. Penso che dobbiamo vedere anche i film popolari, abbiamo bisogno dei film intellettuali ma anche quelli popolari e d’avventura. Per esempio Fernand Léger dipinse i comici Fratellini, che erano clown molto amati dagli intellettuali del tempo e che abbiamo fatto vedere in Reves de clowns. Ora abbiamo perso quest’idea, forse ora c’è più snobismo. Le cose che gli intellettuali amano non sono quelle amate dal pubblico e viceversa. Forse Barbie è un’eccezione, bisognerebbe pensarci.

Lei come si è innamorato del cinema muto?
L’amore per il cinema e per il muto nascono forse insieme. Ho visto il mio primo muto che avevo 10 anni, c’era serie di muti sulla televisione pubblica a New York. Ho subito pensato: ma cos’è questo? La passione è nata già in quel momento, ho comprato il libro The pictorial history of silent cinema, che era pienissimo di foto, quasi solo cinema americano. È diventato il mio libro sul comodino, da leggere prima di dormire, ho studiato ogni pagina. Poi ho comprato altri libri sul muto. A New York era più facile vedere film muti al cinema, così mi interessavo a quello del passato. Più tardi in università ogni giorno andavo in biblioteca a sfogliare la collezione di riviste degli anni ‘20. Il mio interesse proviene dalla passione. Lo studio della storia è arrivato più tardi, credo sia lo stesso per tantissime persone qui. C’è la gioia della passione per il cinema.

Come guarda il cinema di oggi uno che lavora sul cinema del passato e viceversa?
Da un certo lato il cinema di oggi è totalmente diverso. Però è certamente collegato: studiando il muto capisci il montaggio, il ritmo delle scene o molti aspetti visivi. Un film mediocre del passato è più perdonabile rispetto a uno mediocre di oggi. Non penso mai che voglio che il cinema di oggi sia come quello di ieri, le cose cambiano. In Le Mépris – Il disprezzo c’è la tristezza di Godard, perché sa che non possiamo tornare indietro nel cinema, ma ora abbiamo superato anche quel momento di nostalgia. Non è vero che il cinema degli anni ‘20 era meglio di oggi, però era diverso, e lo stesso è nella letteratura. Oggi nessuno scrive nella lingua di D’Annunzio, ma vogliamo ancora leggere i romanzi di allora. Per esempio The Artist era molto carino e ben fatto, ma era un gioco, un unico. Poi ci sono mostruosità come Babylon di Chazelle: ogni elemento di quel film è offensivo, per la trama e il modo.

C’è un canone del cinema muto? O si può usare lo stesso canone per il muto e il sonoro? Possiamo considerare classico il cinema muto anche se, a parte qualche eccezione lo conosciamo poco? Se prendiamo la lista di Sight&Sound dei migliori film della storia, ci sono pochissimi muti e il primo in classifica è L’uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov.
Ogni sondaggio di Sight&Sound è ostaggio della moda del momento. L’idea che oggi Jeanne Dielman di Chantal Akermann sia considerato il più importante di sempre è ridicola, anche se è un film molto importante. Fa solo parte della moda. Litigo sempre con i colleghi critici, perché per loro è strano che mi occupi di muto, per loro è nicchia, è passato. Per le giovani generazioni il cinema è nato con Quentin Tarantino, al massimo conoscono John Cassavetes. Noi cresciuti quando la tv aveva pochi canali, al mattino giravamo i canali e trovavamo sempre film in bianco e nero. Ora i bambini vanno direttamente a vedere i canali che programmano solo i cartoni, ci sono opportunità ma non c’è un’esposizione al passato. È un’infezione, anche i critici non studiano il muto oppure si limitano al canone, che proviene da una percezione limitata. Sono registi grandi, ma è una visione ristretta. Mi sono sempre sottratto alla lista, al sondaggio di Sight&Sound. Se mi chiedono un elenco di 10 commedie in Francia negli anni ‘30 partecipo, ma i 10 più importanti della storia è impossibile. E negli elenchi non c’è mai Napoleon di Abel Gance perché non l’hanno visto. L’ho rivisto dopo 30 anni e ho scoperto che ricordavo alcuni movimenti della macchina da presa perché è un film così potente. Però è difficile vederlo in un cinema con l’orchestra, anche perché è molto lungo. Oggi per i cinefili non c’è problema a vedere un film di Lav Diaz che dura otto ore ma per un film muto sì. Perché c’è questo pregiudizio? Odio il termine heritage cinema, ma non troviamo la parola giusta: old film non va bene, film degli archivi neppure. Abbiamo una relazione ambigua con il passato. Tante volte quando faccio un’introduzione per un pubblico generalista chiedo chi ha avuto nonni cresciuti nel periodo del muto. Nella gioventù di mia nonna, nata nel 1900, c’era il cinema muto e ho avuto un rapporto stretto con lei. Significa che il passato non è così lontano, siamo cresciuti in case con le foto dei nonni. Chi ama la musica considera Stravinski un moderno e non manca un concerto delle sue musiche, ma per loro una proiezione muta è strana. Amano Picasso o Duchamp ma è strano un film dello stesso periodo. È un problema di educazione e cultura, di esposizione e possibilità di venirne a contatto.

Invece tornato di moda il bianco e nero. Che ne dice?

Non so perché, cosa ci sia nello zeitgeist. Però è vero e non solo nei festival, basti guardare Oppenheimer.