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FIT, un viaggio tra originalità e trasgressione
Un bilancio della trentaduesima edizione del Festival Internazionale del teatro che si è appena conclusa
Giorgio Thoeni
Il Festival Internazionale del Teatro alla ricerca di un’espressione identitaria teatrale contemporanea coniugata al femminile si è da poco concluso lasciando un’immagine diversificata. Fra oscillazione del gusto e originalità dell’offerta, salvo qualche valida eccezione, non abbiamo avuto l’impressione di una vera e propria ricerca unitaria.
D’altronde era comprensibile. Rimanere per il terzo anno consecutivo sul tema di genere avrebbe comportato qualche stanchezza. Solo alcuni spettacoli, infatti, hanno risposto alle domande di fondo poste da Paola Tripoli nell’editoriale della 32esima edizione appena conclusa sulle scene luganesi del LAC e del Foce.
Ma dovendo tracciare un bilancio sulle proposte in cartellone evitando noiosi elenchi, l’impressione che ne abbiamo tratto si concentra maggiormente su quelle produzioni dove il lavoro drammaturgico si è in qualche modo identificato con gli interrogativi posti nella premessa che ha accompagnato il programma del Festival e sostanzialmente attorno al rapporto fra scena, spettatori e attori, su che cosa resta del dispositivo scenico, sul corpo e il suo potere di rappresentazione, sulle narrazioni che scardinano il luogo comune.
Ebbene, questa volta, più che nelle altre edizioni, ci siamo trovati a un bivio. Da un lato ci è stata indicata la via verso un’apparente trasgressione formale, dove il corpo è al centro di una parola rarefatta, imprigionata nei segni e vettore di significati subliminali, potenti. L’esempio più significativo ci è giunto da Demain est annulé, un’avvincente e originale coreografia della basilese Tabea Martin per la danzatrice neocastellana Tamara Gvozdenovic. La potremmo definire una sfida lanciata al pubblico elencando i processi che portano al rifiuto delle convenzioni, allo scontro fra pensiero comune e ribellione attraverso parole-chiavi, concetti sprayati sulla scena e accompagnati da suoni e mezze frasi.
Una performance intensa, faticosa, esemplare, dove l’affermazione e la sua contraddizione vengono messe in gioco in un esercizio continuo fra tensione e abbandono, fra la consapevolezza del gesto e la sua fisicità, fra l’occupazione dello spazio e la sua ridicolizzazione nella sua fittizia limitazione.
L’altra direzione è quella rappresentata dalla parola scritta, meditata, costruita fra indagine e letteratura, dove l’attore è al centro di una narrazione che trasporta lo spettatore nel labirinto di sensazioni che scoprono zone dell’inconscio. E siamo ancora nel solco della tradizione dove a vincere è la qualità della scrittura e la sua interpretazione: non si inventa nulla.
Due sono gli spettacoli emersi in tal senso.
Alcune cose da mettere in ordine di Rubidori Manschaft regista e autrice di un testo scritto a quattro mani con Angela Demattè, è Elogio della vita a rovescio di Daria Deflorian.
Soggetto del primo spettacolo – un progetto lungo, meticoloso, a tratti doloroso – è la vecchiaia, la memoria, la consapevolezza del declino. Un processo documentato con decine di interviste e coronate da un’espressione drammaturgica resa da una intensa Roberta Bosetti.
Con Daria Deflorian ci siamo invece trovati lungo il tracciato di tre storie incentrate sulla sorellanza, uno dei temi più raccontati dalla scrittrice coreana Han Kang in un’osmosi a corrente continua. Sullo sfondo, la violenza e in scena la giovane e brava Giulia Scotti.
Una nota di merito anche per la scelta degli spettacoli per i più piccoli.
In particolare vogliamo segnalare Famiglie de La Baracca/Testoni di Bologna: un dispositivo semplice e geniale per raccontare senza parole con l’ausilio di manichini come possono nascere famiglie tradizionali o diverse.
Una nota anche per Je suisse (Or Not) di Camilla Parini, lavoro delicato e sensibile. In un pesante costume di orso bianco, Camilla lascia che ogni spettatore diventi silenzioso lettore di una statica performance e testimone della ricerca di identità.