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Jon Fosse, cantore della quotidianità
Nobel per la Letteratura ◆ Ritratto di una delle voci più affascinanti della drammaturgia e della scrittura europea contemporanea
Giorgio Thoeni
Teatro, romanzi, saggi, poesia, racconti per l’infanzia… non è semplice raccontare il mondo di Jon Fosse (nella foto), così frastagliato e ricco, né tantomeno ridurlo ai suoi aspetti più evidenti.
Certo è che dal momento che ha da poco conquistato gli allori del Premio Nobel per la Letteratura adesso avrà un bel daffare nel rispondere alle mille domande che scaturiscono con la conoscenza dei suoi lavori. Che non sono pochi.
Nato nel 1959 sulla costa ovest della Norvegia a Hausgesund, una cittadina affacciata sul fiordo, fra le più popolose e culturalmente vivaci, Jon Fosse ha presto manifestato interesse per la scrittura prendendo la penna in mano già a 12 anni. Debutta nel 1985 con un primo romanzo ma la sua notorietà la si deve principalmente al teatro. Nel 1994 va in scena al Teatro Nazionale di Bergen E non ci separeremo mai, la sua prima opera. Due anni dopo vince il Premio Ibsen. Nel 2002 è il miglior autore straniero per Theater Heute e nel 2004 conquista il Premio Ubu. I suoi lavori, soprattutto teatrali, sono ormai tradotti in una quarantina di lingue, un successo che gli viene riconosciuto in gran parte a livello europeo. Un po’ meno oltre Atlantico e, spiace ammetterlo, in Italia dove la sua drammaturgia è poco pubblicata e la scena gli deve ancora molto, eccezion fatta per qualche coraggioso allestimento.
Ricordiamo Inverno realizzato in occasione del Festival di Asti del 2004 con la regia di Valter Malosti fino al più recente La ragazza sul divano dello Stabile di Torino per la regia di Valerio Binasco. Non a caso due fra i più curiosi e innovativi registi del panorama teatrale italiano.
Jon Fosse, una delle voci più affascinanti e intense della drammaturgia europea contemporanea, è ormai considerato il maggiore scrittore norvegese contemporaneo. Testimone di un mondo letterario che esploriamo brevemente limitandoci alla sua cifra drammaturgica nonostante abbia prodotto romanzi, saggi e molta poesia.
Se nella letteratura è giovane protagonista con un primo romanzo, al teatro ci arriva quasi controvoglia. Su istigazione di un amico regista scrive Non ci separeremo mai, una commedia che si inserisce nel filone tematico del disagio, del disincanto, della malattia, della solitudine. Un’emarginazione che vive una quotidianità cristallizzata, con una meticolosa attenzione ai comportamenti dei personaggi. Caratteristiche che lo hanno inizialmente inquadrato, non senza qualche ingenua precipitazione, a un nuovo Ibsen, suo conterraneo.
I lavori di Fosse, quasi sempre atti unici, sono contraddistinti da una scrittura scarna, veloce, uno stile in cui prevale una vena minimalista sviluppata con una struttura densa tra il realismo e l’assurdo, fatto di silenzi e lunghe pause. Ma più che a Ibsen per le tematiche intimiste, per lo stile andrebbe avvicinato a Beckett o a Pinter.
La sua è infatti una sorta di chirurgia radicale del linguaggio con uno stile influenzato dalla musica, culla delle sue prime passioni come chitarrista rock. «È da lì che proviene l’aspetto ripetitivo della mia scrittura» ha dichiarato per poi aggiungere: «Voglio conservare questa sensazione quando scrivo per il teatro e dunque nessuna punteggiatura. La forma in letteratura è una forma musicale».
Nel teatro di Fosse, sebbene prevalga un senso di vuoto e di cupa rassegnazione, la scena appare con una luminosità simile a una tela di Munch: una luce strana, come il riflesso di un’eclissi di sole che mette in risalto i contorni degli oggetti e dei personaggi. E talvolta l’assenza della luce, l’isolamento nello spazio e il tempo vissuto al rallentatore, creano dei momenti in cui «sembra che un angelo stia attraversando la scena».
Il suo universo drammatico è costituito da personaggi che non hanno nulla di spettacolare ma da cui si sviluppa una tensione particolare fino a trasformare un fatto di per sé abitudinario oppure un banale incidente quotidiano in un’azione fortemente drammatica.
Non sono personaggi speciali quelli che animano le sue opere. Anzi, sono persino banali e si fanno raramente notare per azioni spettacolari. Tuttavia riescono a creare una tensione speciale, dove l’autore sembra suggerire che tutti possiamo diventare protagonisti (o spettatori) della nostra esistenza e dove le parole, i gesti, i comportamenti diventano l’involucro necessario di un farsi e disfarsi teatrale.
Ne è un esempio E la notte canta, dove Fosse affronta il tema della sofferenza. Al centro della trama c’è una giovane coppia con un bambino: un nucleo familiare perfetto, all’apparenza normale. La donna dice in una battuta: «Sempre accade o non voglio che accada nulla. E poi accade qualcosa comunque; cos’è che fa accadere tutto? Sono io o qualcun altro?» Un esempio che ci fa dire quanto i fatti che accadono possono indurre a reazioni, posizioni, sentimenti e scelte spesso irreversibili.
Ma è anche il modo con cui Fosse riflette sulla fragilità delle giovani generazioni, sulla contrapposizione delle energie vitali agli stati depressivi, del successo all’insuccesso, della vita sulla morte. Sempre immersi in un quotidiano che semplicemente scorre. Proprio come uno sviluppo musicale.