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Bibliografia

Helga Flatland, Fino alla fine, Fazi editore, Roma, 2023.


«Il mondo Occidentale idealizza la gioventù»

Incontro  ◆  Helga Flatland, autrice di Una Famiglia moderna, torna in libreria con il suo nuovo romanzo Fino alla fine
/ 09/10/2023
Angelo Ferracuti

In Fino alla fine (Fazi, 2023), Helga Flatland, da molti considerata la Anne Tyler norvegese, tra le più acclamate giovani scrittrici del suo Paese, racconta in un romanzo di grande tenuta stilistica e capacità di affresco il difficile e travagliato rapporto tra una madre e una figlia nella Norvegia contemporanea: quello di Sifrid, ragazza ribelle fuggita da una provincia claustrofobica e ostile, ora medico nella capitale scandinava, e Anne, la madre insegnante, con la quale ha sempre avuto una relazione conflittuale. La narrazione qui e ora al presente è a due voci e su due piani narrativi in prima persona, ma sui diversi punti di vista delle protagoniste s’innervano anche le vite di tutti i componenti della famiglia, dal padre malato di Alzheimer ormai semincosciente in una clinica per lungodegenti, il primo marito di Sifrid, l’attuale compagno, i figli piccoli e adolescenti. Quando Anne scopre di essere malata di cancro come per un effetto domino tutti sono costretti a una reazione emotiva che stravolge la rete sensibile delle relazioni rimettendole in discussione. Helga Flatland, con una prosa nitida che mescola parlato e descrizione di ambienti paesaggistici e interni privati, è molto brava a raccontare l’epica minore delle persone normali, la routine, quel vincolo esistenziale che ci lega tutti intimamente, nelle città e nei Paesi a diverse latitudini, e universalmente ci fa scoprire umani e troppo umani.

L’ho incontrata in un caffè di Oslo, nel quartiere di Frogner, dove abbiamo conversato parlando del suo nuovo libro da poco tradotto in italiano.

C’è un forte senso di quotidianità, di realtà nei tuoi libri, una capacità di raccontare la routine, quella cosa uguale per tutti e ripetitiva che scandisce il tempo della vita. Anche in Fino alla fine questo effetto è molto forte. È forse la cosa più difficile per uno scrittore, raccontare la vita normale, la routine. Come si costruisce letterariamente?
La cosa più interessante nella mia letteratura sono gli aspetti della quotidianità, è nella ripetizione, nelle abitudini che troviamo l’essenza della vita. Il mio modo di pensare è di entrare nell’animo del personaggio e ricreare quel senso di quotidianità, se fossimo capaci di analizzare bene la nostra vita sociale troveremmo il materiale per poter scrivere sia una tragedia o una commedia, è quello che io faccio cercando di ricreare la quotidianità di tutti. Uso la lingua che appartiene alla mia vita di tutti i giorni, la lingua che usiamo con le persone con le quali abbiamo relazioni affettive di amicizia, di amore, è la lingua della vita.

Sei molto attratta dai legami famigliari, dalle relazioni, dagli intrecci generazionali, anche in questo libro a due voci, con due diversi punti di vista, quella di una figlia e di una madre, c’è tutta la trama delle cose irrisolte, degli atti mancati, soprattutto il risentimento della prima nei confronti della seconda. Perché ha scelto di dare al libro questa forma confessionale?
Questa è una caratteristica di tutta la mia produzione letteraria, di dare più di una voce al racconto, perché la realtà, la verità è qualcosa di molto complesso, non risiede in una sola prospettiva ma è fatta da diversi punti di vista a volte diametralmente opposti, in conflitto tra di loro. La differenza tra la madre e la figlia protagoniste di questo romanzo, come gli stessi avvenimenti, vengono interpretati in maniera diversa, una percezione della realtà molto dissimile. Anche i loro ricordi sono differenti rispetto agli stessi avvenimenti che hanno vissuto, che hanno condiviso negli stessi momenti, la memoria spesso inganna, inventa. Non parlo delle mie esperienze personali, sono figure di finzione che sono nate nella mia immaginazione, però dentro c’è tutta la mia sensibilità nel mettermi nei panni dei protagonisti.

L’arrivo della malattia di Anne è un big bang, il motivo scatenante, rimescola tutti i rapporti, le relazioni, costringe i personaggi a guardare ogni cosa con uno sguardo diverso, li costringe a una reazione.
È così, la malattia scatena una reazione per cercare di trovare un punto di incontro per perdonarsi, una forma di comprensione tra la madre e la figlia. Puoi immaginarlo come un sasso che cade nell’acqua e i cerchi si allargano, si allargano sempre di più, finché non investono tutti i personaggi, tutti i famigliari che sono legati a questa famiglia. La prospettiva di una morte imminente è il catalizzatore di tutti gli avvenimenti. È stata proprio l’idea principale per costruire il romanzo, in una situazione di morte imminente c’è un desiderio di ricucire i conflitti, di perdonare se c’è da perdonare, non è solo un rapporto tra madre e figlia ma coinvolge tutti i membri della famiglia.

Poi c’è il conflitto con la piccola città, con la provincia, «il paesello», dalla quale Sigrid è scappata, con un controllo sociale molto forte. «Facebook, a questo paese, gli fa un baffo» dice a un certo punto del libro. La provincia, la piccola città è un luogo universale, dominato dalla ripetizione e dal forte legame sociale.
La realtà norvegese è fatta di poche grandi città ma di una quantità enorme di piccoli villaggi rurali sparsi in tutto il Paese, e l’idea di molti giovani come Sigrid è di lasciare questi posti e andare in città per essere un’altra persona e cominciare un’altra vita, la città ti rende libero, lì puoi ricreare un altro io. Nei posti piccoli anche la natura fisica dei luoghi, la costrizione e la ripetizione, forma le persone in modo molto più forte che in una città. In questi posti sei visibile, non puoi nasconderti. La sua fuga verso la città è per crescere e arricchirsi di esperienze, ma si tratta anche di una fuga dalle relazioni famigliari, dalla madre in particolare, e da un paesello che gli sta stretto. Io vengo da un un paese piccolo, vicino a Telemark, quindi ho cognizione di questo, e nonostante viva da tanti anni a Oslo il rapporto conflittuale tra città e il mio paese di origine fa intimamente parte della mia vita.

Le donne in questo romanzo sono assolute protagoniste, sono la parte forte, responsabile, sensibile della famiglia, mentre gli uomini sono sempre figure marginali, fragili, quasi degli attori non protagonisti della vita, ma sono donne anche molto legate affettivamente ai propri compagni.
In realtà dietro una donna forte c’è sempre un uomo forte, e viceversa, ma ci tengo a precisare che nella mia produzione letteraria ci sono anche tanti uomini forti.

Ma il senso profondo del libro è anche una riflessione sulla vecchiaia, la malattia e la morte. A un certo punto la madre chiede persino alla figlia «un aiuto a morire», una morte dolce.
Il libro ha anche questa componente, cioè il rapporto tra le generazioni, il modo diverso di vedere la vecchiaia in un mondo occidentale che idealizza la gioventù, questo si riflette anche nella relazione tra me e mia madre, molto diversa da quello che mia madre aveva con la sua. Questo rapporto generazionale si vede ovunque nei Paesi occidentali, a causa della tecnologia, dei cambiamenti avvenuti, io non sono una trentanovenne di due generazioni fa, mia madre non è una settantenne di trent’anni fa, questa sensazione di eterna giovinezza che viviamo incoscienti fa sì che quando arriva una malattia, quando arriva la morte ci annienta e colpisce con una forza maggiore.