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Il mago che temeva per la fine del  suo incantesimo

Un Colm Tóibín ironico e in splendida forma al Festivaletteratura di Mantova ha raccontato il suo nuovo romanzo – che    come fu per quello su Henry James – ci porta nella mente di Thomas Mann
/ 25/09/2023
Natascha Fioretti

«Mi interessava disegnare il ritratto di un uomo che paragonato al resto della famiglia non fa rumore. Un uomo che attraversa la vita rendendosi invisibile mentre ogni membro della famiglia sembra essere più attraente, più chiassoso e più interessante». L’uomo in questione è Thomas Mann, massimo esponente della letteratura tedesca della prima metà del Novecento, premio Nobel per la letteratura nel 1929, autore de I Buddenbrook. Decadenza di una famiglia (1901), Tonio Kröger, (1903), Morte a Venezia (1912), La montagna incantata (1924) e tanti altri. A tratteggiarlo, a raccontarlo portandoci nei suoi pensieri più intimi, nel suo mondo interiore invece è Colm Tóibín, giornalista, saggista e romanziere irlandese, classe 1955, critico letterario per «The Dublin Review», «The New York Review of Books» e «The London Review of Books», professore di letteratura in diverse università inglesi e statunitensi. Il Mago è il suo più recente lavoro di cui ha raccontato al Festival di letteratura di Mantova qualche settimana fa in un incontro con lo scrittore Peter Florence.

Il mago (Einaudi, 2023) è un romanzo avvincente e profondo, a tratti sentimentale, anche cupo, che indaga l’uomo dietro la scrittura.  «Thomas Mann ha usato la sua famiglia per i suoi romanzi – dice Colm Tóibín - la forza della sua narrazione ha dominato tutte le persone che si muovevano attorno a lui». E lui, il mago – come lo sprannominavano in famiglia sin da quella volta che Klaus bambino lo chiamò cosi perchè Thomas aveva alleviato i suoi incubi notturni dicendo, appunto, di essere un «famoso mago» - dall’alto della sua scrivania, dall’alto e dal profondo della sua scrittura osserva la vita sua e degli altri e ne tira le fila. È come se nella veste di scrittore, nella sua figura del perfetto tedesco borghese, lui riesca a filtrare tutto ciò che lo interessa, lo tocca da vicino per poi trasformarlo in una filigrana perfetta per i suoi romanzi. È come se da dentro le mura del suo studio (nella foto lo vediamo alla sua scrivania a Erlenbach nel Canton Zurigo in uno scatto del 1953) circondato dai suoi figli e dalla moglie Katia Pringsheim, Thomas Mann si schermasse dal mondo, seguendo e al contempo filtrando gli eventi, protetto da tutto, distante da tutto. Non a caso il soprannome con il quale usavano chiamarlo i suoi figli non è solo espressione di una consuetudine famigliare ma anche di una distanza che Thomas mantiene con le persone a lui vicine, anche con i suoi figli. Di questa sua distanza, del rapporto difficile tra Thomas e i figli Klaus, Erika, Elisabeth, Monika, Golo, Michael ben racconta Tilmann Lahme nella sua biografia I Mann. Storia di una famiglia (EDT, 2017). Se all’apparenza i Mann rappresentano la famiglia tedesca perfetta del Novecento, ciò che – per intenderci - i Windsor sono per i britannici, scrive Lahme – storico della letteratura, giornalista e critico letterario - la realtà è tutt’altra.

In tutto il romanzo di Tóibín attraverso le diverse epoche e le diverse residenze – da Lubecca, a Monaco, a Küsnacht e poi a Pacific Palisades, Los Angeles la vita di Thomas Mann ha alcune costanti: la scrittura nel suo studio tutte le mattine, le passeggiate con Katia e i momenti a tavola con la famiglia. «Come romanziere ciò che mi interessa, che ricerco sono l’intimità, l’ironia, i silenzi, le ombre. Il romanzo avviene nella sua testa, nella sua sfera intima e domestica» spiega l’autore.

Con la madre Julia Thomas Mann condividerà per tutta la vita la passione per l’acqua, per il mare, porterà sempre con sé per poi amplificarli nelle sue esperienze gli echi del mare di Paraty

Colm Tóibín la vita di Thomas e della sua amazing family – come la definì Harold Nicolson sul «Daily Telegraph» la ripercorre tutta e con estrema chiarezza sin dagli albori brasiliani a Paraty della madre Julia che amava raccontare ai figli Heinrich e Thomas delle sue origini – così come loro adoravano ascoltare.

«Raccontaci delle stelle, - diceva Heinrich. A Paraty, casa nostra era sull’acqua - rispondeva Julia. Era quasi un tutt’uno con l’acqua, come una barca. E quando scendeva la sera e spuntavano le stelle, erano luminose e basse nel cielo. Qui al Nord le stelle sono alte e lontane. In Brasile si vedono come si vede il sole di giorno. Sono piccoli soli anche loro, scintillanti e vicini, specie a chi di noi abitava a un passo dall’acqua. (…) La prima notte a Lubecca mi è preso un colpo quando non ho visto le stelle. Erano coperte dalle nuvole».

Con la madre Julia Thomas Mann condividerà per tutta la vita la passione per l’acqua, per il mare, porterà sempre con sé – per poi amplificarli nelle sue esperienze – gli echi del mare di Paraty. A Lubecca si diceva che le debolezze dei figli del Senatore e facoltoso commerciante Johann Heinrich Mann e di Julia da Silva Bruhns fossero da attribuire al ramo femminile brasiliano: «Alcuni a Lubecca si erano fatti l’idea che i fratelli, in realtà fossero non soltanto l’esempio del declino del loro casato bensì il presagio di una nuova debolezza che si insinuava nel mondo, specie in quella Germania settentrionale che un tempo andava fiera della propria mascolinità». Sia Heinrich che Thomas non erano interessati a portare avanti l’azienda di famiglia, avevano altre inclinazioni e progetti, entrambi erano dei creativi, dei poeti, dei sognatori – soprattutto Thomas – ma il casato dei Mann a Lubecca aveva il suo peso e la sua notorietà. Rende l’idea il bel ritratto che lo scrittore irlandese fa del Senatore: «Era famoso per il taglio perfetto degli abiti confezionati dal suo sarto di Amburgo e per l’aspetto impeccabile. Il senatore cambiava una camicia al giorno, a volte due, e aveva un ampio guardaroba. Portava i baffi alla francese. Se la sua pignoleria simboleggiava in tutto e per tutto l’azienda di famiglia, un secolo di eccellenza civica, il lusso del guardaroba esprimeva invece la sua personalissima opinione di come essere un Mann a Lubecca fosse più importante dei soldi e del commercio, e implicasse non solo sobrietà ma anche un accorto senso di stile».

Nel 1933 l’autore voleva farsi spedire dal figlio a Lugano, dove si trovava con la moglie Katia, i suoi diari che contenevano il segreto impronunciabile della sua omosessualità

Lo stile non mancherà mai a Thomas Mann che per tutta l’esistenza lotterà con l’idea - e non soltanto quella – della sua immagine divisa tra figura pubblica e privata. La sua omosessualità in casa non era un segreto, trasudava dalle sue opere, si evince con chiarezza nei suoi diari e, dice Tóibín, «la sua famiglia ha fatto di tutto per evitare che la verità sulla sua sessualità venisse a galla e si diffondesse nel mondo».

Resta il fatto che grazie ai diari di Thomas Mann pubblicati un ventennio dopo la sua morte sappiamo che il premio Nobel per la letteratura «provava un grande disagio nello stare al mondo mentre la società lo vedeva autorevole e pieno di sè» racconta Tóibín.

Dice bene Dwight Garner nella sua recensione sul «New York Times» quando spiega le orgini della grande sensibilità e attenzione dell’autore irlandese: «La narrativa di Toibin è animata dall’attenzione sempre vigile che presta alle sotterranee correnti sessuali. Toibin, anche lui gay, ha sempre esteso la sua simpatia storica agli outsider sessuali».

In questo dilemma tra figura pubblica e privata nel romanzo giocano un ruolo fondamentale i diari di Thomas Mann. Quando si trova in esilio in Svizzera con la famiglia teme che possano cadere in mano ai nazisti. Per lui sarebbe la fine e per come vanno le cose il racconto prende quasi una piega ironica.

Corre l’anno 1933, Thomas e Katia sono a Lugano, a Berlino i libri bruciano, i nazisti danno alle fiamme le opere di Hesse, Brecht, Heinrich, Klaus ma non quelle di Thomas Mann. La situazione in Germania si fa sempre più critica e lo scrittore chiede a suo figlio Golo – che ha già portato via mobili, quadri e libri dalla casa di Monaco – di prendere ciò che più gli sta a cuore: «Pur essendoci manoscritti e lettere, incluse le lettere di Katia da Davos, che avrebbe voluto far uscire dalla Germania, Thomas sapeva che le carte più importanti erano i suoi diari. Li teneva nella cassaforte in uno studio di Poschingerstrasse. Nessuno li aveva mai visti». Chiede allora a Golo di prenderli, gli invia la chiave della cassaforte senza specificare di cosa si tratta. «Thomas gli chiese di prelevare i quaderni con la copertina di tela cerata senza leggerli, metterli in una valigia e spedirglieli a Lugano con un treno merci, convinto che Golo avrebbe eseguito le istruzioni alla lettera»  ma non fu cosi.

Golo teme di essere controllato, d’altra parte i nazisti hanno già confiscato le auto di famiglia, così ritiene più sicuro affidare i quaderni a Hans, l’autista. Peccato però che Hans si è venduto ai nazisti. Una volta giunto a Lugano, Golo racconta a Thomas cosa è successo e che la valigia con i suoi diari molto probabilmente ora è in mano ai nazisti. Il mago non dorme per diverse notti divorato dal pensiero che la verità potrebbe venire a galla, che potrebbe perdere il privilegio di essere ancora uno dei pochi autori pubblicati e non bruciati e mettere a repentaglio la sua famiglia. In quelle note l’autorevole, elegante e compunto scrittore borghese in cui la gente vedeva il rappresentante della nuova Germania, getta la maschera: «I suoi sogni si erano insinuati nei racconti e nei romanzi, ma in ambito narrativo era facile interpretarli come giochi letterari. Essendo padre di sei figli nessuno lo aveva mai accusato apertamente di perversioni private. I diari però, se pubblicati, avrebbero messo in chiaro chi era e che cosa sognava. Avrebbero mostrato che il suo tono distaccato, aulico, il rigore personale, l’interesse per gli onori e le attenzioni erano maschere concepite per dissimulare ignobili desideri sessuali. Mentre altri scrittore, inclusi, Ernst Bertram e il poeta Stefan George, avevano dichiarato al mondo la loro omosessualità, Thomas aveva chiuso i suoi desideri sessuali dentro un diario chiuso, dentro una cassaforte».

In particolare a preoccuparlo è il resoconto di quella volta che entrò in camera da letto e vide suo figlio Klaus nudo. «Quell’immagine gli era rimasta impressa, tanto da spingerlo a riportare sul diario lo strano fascino che il figlio aveva esercitato su di lui. Era abbastanza convinto di aver scritto altre volte, sul diario, quanto lo attirasse il corpo di Klaus o quanto lo avesse eccitato vedere Klaus in costume da bagno. Quelli, immaginava, erano pensieri che non tanti altri padri dovevano aver covato».

Thomas Mann si è chiesto se era giusto scrivere quanto aveva visto, le strane sensazioni vissute. Nel dubbio ha prevalso lo scrittore che prende nota delle cose importanti e «per fortuna – dice Tóibín. E poi – considerando che viviamo nell’epoca della cancel culture – si chiede: cosa e quanto dovremmo tollerare? Cosa dovremmo disprezzare? Qualunque sia la risposta, non possiamo far finta di niente, con questa realtà dobbiamo convivere e fare i conti».

Da qui lo scrittore irlandese che aveva già fatto lo stesso esercizio – riuscitissimo – con la biografia romanzata di Henry James dal titolo The Master (Fazi editore, 2004) ci rivela metodo e essenza del suo lavoro. Entrambe sono opere che ama da sempre, sin dai tempi di gioventù ma che ancora oggi per lui sono importanti:

«It is all about the books!» esclama nel suo dialogo con Peter Florence. Precisa anche che il romanzo si sviluppa attorno a quelli che sono i fatti certi della vita di Thomas Mann. E poi racconta la sua idea di scrittore che è colui che «abbraccia la complessità e con essa si confronta».

Nel costruire e delineare i suoi personaggi Tóibín va oltre le apparenze, oltre quei tratti e quei caratteri riconosciuti e sdoganati. Egli si immerge nelle profondità della mente e della natura umana alla ricerca dell’essenza spogliata di qualsiasi orpello o ricamo. Ne Il mago i dialoghi sono quasi totalmente assenti e se anche i personaggi, le vicende, i luoghi, sono tanti, affastellati, noi lettori viviamo tutto con estrema chiarezza perchè siamo dentro la testa di Thomas Mann. Ed è la scrittura sensibile, acuta e asciutta di Tóibín a far accadere la magia.