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Bibliografia

  • Thomas Belmonte, La fontana rotta,
    Einaudi (1979), 2021
  • Norman Lewis, Napoli ’44,
    Adelphi (1978), 2015, 2023
  • Curzio Malaparte, La pelle,
    Mondadori
    (1978), 2015
  • Giuseppe Marotta, L’oro di Napoli,
    Bur
    , Grandi classici (1947), 2006
  • Anna Maria Ortese, Il mare non bagna Napoli,
    Adelphi (1953), 1994

I Quartieri Spagnoli e tutto l’oro del mondo

Reportage - Una giornata in un vicolo di Napoli, città che è da sempre fonte di ispirazione delle migliori penne della letteratura italiana e internazionale
/ 25/09/2023
Simona Sala, foto di Ciro Pipoli

Tarantina dal suo basso, o vascio, (spazio abitativo con accesso diretto in strada) guarda la via che l’ha adottata, quel vicolo in ombra da cui si vede solo uno spicchio di cielo e che fino a qualche anno fa era percorso unicamente da motorini e faceva da sfondo a storiacce di quartiere, a traffici e lotte di potere. E che oggi invece è battuto – per lo più – da turisti dalle gambe arrossate con la cartina in mano, che confusi dai festoni bianco-azzurri che penzolano dal cielo come un’infinita escrescenza verticale, non riescono a trovare il murales-santuario di Diego Armando Maradona, con i suoi ceri, le sue bandiere, la sua commozione, battuto e fotografato come e più della madonna di Pompei. Nella sua vita, Tarantina, origini pugliesi (e un’infanzia da abusata e scappata di casa, ma nel vero senso della parola) il cui basso, salotto-camera da letto con trapunta rigorosamente leopardata, è alla mercé di passanti e amici, prima di stabilirsi nei napoletani Quartieri Spagnoli, ha fatto da musa a Federico Fellini, ha conosciuto Pasolini e accendeva le promiscue notti romane, quando ancora «femminiello» aveva un significato altro, in un’accettazione del diverso che forse era più grande della nostra.

«Luogo di dolore e ultima speranza: ero obbligato a interpretare Napoli all’interno di queste polarità. Luogo di sangue e di cenere, di vino e di fiori: una città che ti tende una mano mentre nell’altra nasconde il coltello, ecco la dolorosa dialettica della vita di questo popolo»
(Thomas Belmonte)

Al bar Ex Voto dei Quartieri – indicato oltre che dal cuore trafitto per grazia ricevuta tanto caro ai napoletani, anche da un murales dedicato a Bud Spencer – Vittorio ritira i bicchieri di un gruppo di ragazze che ha festeggiato l’addio al nubilato, mentre lo sguardo si posa su due vu cumprà che, risaliti di corsa da Via Toledo (grazie al muto tam tam che di solito annuncia l’arrivo della finanza), si sono rifugiati nel dedalo di vicoli e hanno posato a terra il fagotto fatto di un lenzuolo annodato ai quattro angoli contenente borsette falsificate. Vittorio li guarda con le braccia lungo i fianchi, «Poveretti, peccato che Napoli non possa offrire loro di più». Gli fa onore, questa sensibilità, ma espressa da uno emigrato nel Nord dell’Europa e che ora sta qui solamente perché ha la madre all’ospedale, fa strano. Vittorio fa spallucce, «e perché dovrebbe fare strano? Loro sono come noi, devono emigrare. E anche noi siamo africani, in fondo».

«Dio creò insomma i “Quartieri” per sentirvisi lodato e offeso il maggior numero di volte nel minor spazio possibile»
(Giuseppe Marotta)

La consapevolezza di appartenenza, eterno ritorno di un destino che si riverbera praticamente immutato di generazione in generazione è marchio distintivo di molti abitanti dei Quartieri Spagnoli, il fittissimo grumo di case ammassate che sovrasta via Toledo voluto da Pedro de Toledo nel 1500, dove a volte il sole non ce la fa a penetrare mentre altre prende di mira un gradino con insistenza, scottandolo, dove ancora si canta mentre si «fa servizio», ossia le pulizie giornaliere (ovviamente canzoni del repertorio neomelodico come Ce appartenimmo di Nando Mariano, Jamme facimme pace di Natale Galletta, o un evergreen di Nino D’Angelo), dove ci si passa il caffè dalla finestra, e dai balconcini si cala il secchio per il pane o le sigarette. Dove quando si compiono i diciott’anni, o, meglio ancora, ci si sposa, ci si affaccia dal balcone, scintillanti regine per una notte, si liberano colombi e magari si riceve persino una serenata da parte di una celebrità napoletana. Ma anche dove il controllo sociale è praticamente tutto, dove basta passare più di una volta per essere riconosciuti, scandagliati, forse incasellati.

I bassi, un tempo umidi tuguri scuriti da muffa e umidità, raccontati magistralmente da penne eccellenti, tra cui quella permeata di pietas di Curzio Malaparte ne La pelle, ancora resistono, ancora offrono, nella loro immutabilità sopravvissuta alle invasioni e ai bombardamenti, spaccati di vite (sbirciate e rubate, si intende: passando si rallenta giusto il tempo di mangiarsi tutto ciò che si prospetta alla vista) dal sapore eterno, come racconta attraverso i suoi intensi scatti il giovane fotografo Ciro Pipoli – che ci ha gentilmente messo a disposizione alcune delle fotografie di questo servizio, e che ha fatto degli abitanti dei vasci la sua, allargatissima, densissima famiglia.

«Sotto molti aspetti, Fontana del re si incastra nel modello di “quartiere protetto” che il sociologo Gerarld Suttles ha descritto come una forma di collettività (…), l’organico di questi piccoli quartieri è composto da donne, bambini e adolescenti che passano la maggior parte del loro tempo in loco».
(Thomas Belmonte)

Ogni tanto riapre anche il basso di fronte al Bar Ex Voto (a due passi dalla Pizzeria Ciro 7 Soldi, dove i turisti si mettono in fila ordinatamente, scansando gli scooter di passaggio a pochi passi dal salone di Roberto, che vende magliette il cui ricavato permette ai ragazzi dei Quartieri l’abbigliamento per l’allenamento di calcio), definito centro culturale da parte di un gruppo di donne che hanno cercato di mantenerne lo spirito originario, ossia (senza scomodare un passato troppo antico) quello della liberazione di Napoli da parte di americani e inglesi – sebbene qui si dica, e probabilmente non a torto, «ma noi, già liberi stavamo». Sì, perché come sottolinea l’ufficiale inglese Norman Lewis in Napoli ’44, Napoli è una «città (…) che ha sempre ignorato, e alla fine sconfitto, i suoi conquistatori».

Un tempo questo basso era l’accesso a un bordello, anzi, alla premiata casa di piacere Gelso, che ai «giovanotti di primo pelo» offriva «agevolazioni» non meglio specificate. Alle pareti Maria indica tariffari antichi, ricordi e testimonianze di quella calata dei barbari – perché seppur non come i nazisti, per certi versi, anche inglesi e americani barbari furono – che contrappuntò l’insostenibile tirannia tedesca, continuata anche dopo la liberazione. La partenza dei tedeschi non mancò di lasciare i suoi strascichi, come racconta in modo squisito sempre l’ufficiale Lewis: molti furono i palazzi minati nelle fondamenta che esplosero quando ormai il pericolo maggiore pareva scampato, ma i Quartieri sono ancora in piedi. E oggi, quando riescono, le donne del «centro culturale» si incontrano, lo mostrano ai turisti, cui offrono un caffè, e magari anche un’interpretazione anima e core di Come facette mammeta, composta nel 1906 da Salvatore Gambardella, e rilanciata qualche decennio più tardi da Renzo Arbore e dalla sua Orchestra Italiana. E il sottofondo al belcanto di Maria lo fanno i motorini, che passano giorno e notte, carichi di giovani spericolati, che a volte si fanno male, ma anche da intere famiglie, papà al volante, piccolini incastrati tra gli adulti, e mamma a chiudere il gruppo, dirette ammare, o chissà dove.

Intanto, davanti al bar le amiche trans offrono un aperitivo a Tarantina, che dall’alto della sua età e di una vita che ne vale due o tre, non ha più voglia né interesse a parlare dei tempi che furono, e dunque per la sua biografia rimanda a quelli dell’Ex Voto, che più di un bar è un microcosmo, fatto di famiglie intricatissime e iperimparentate, le cui figlie portano i capelli corvini lisci e le labbra ritoccate già a vent’anni («se interessa ce sta Oksana, che per 140 euro te le fa»), la cui vita è scandita da una struttura sociale che non mette necessariamente la realizzazione del sé al primo posto.

«Nessuno dei componenti la rappresenta, né la famiglia rappresenta singolarmente nessuno di loro. Qui il totale è più della somma delle parti e ogni parte è più del totale».
(Thomas Belmonte)

E dunque subentra quel quasi paradosso che potremmo definire del bilico, che ritroviamo nello studio di Belmonte, che si incaponì, negli anni Settanta, a capirla, questa forma di società uguale solamente a sé stessa, dove i paradigmi di lealtà e convivenza, di amore e odio, sono leggermente spostati rispetto a tutto quanto ci ha insegnato al più tardi la globalizzazione degli ultimi decenni. La famiglia, ad esempio, oltre a essere forse gabbia, agli occhi nostri, emancipati, è anche sicurezza, una capsula protettiva verso ciò che sta fuori, per noi difficile da comprendere. Ci hanno dunque provato l’antropologia di Belmonte, i racconti di guerra di Malaparte e Lewis, ma anche gli affilati e struggenti ritratti di Marotta, nel suo L’oro di Napoli o di Anna Maria Ortese in Il mare non bagna Napoli, dove ogni singola vita, perfino nella sua miseria più nera, pare permeata di un pulviscolo, appunto, dorato, e si fa archetipo di umana speranza, all’insegna dell’«è possibile» (non scordiamo che siamo comunque nel regno di San Gennaro e cartomanti).

È infatti possibile vivere anche così, tutti insieme, quasi a ridosso, senza vedere il mare o il Vesuvio dalla finestra, è possibile amarsi e odiarsi a questa stregua, certamente spesso tirare a campà, forse con qualche excursus nell’illegalità (fintanto che non si trasforma in piaghe criminali e organizzate come quelle che l’Italia combatte da decenni, poiché espressione della sconfitta dello Stato), anche in virtù di una battuta, di un briciolo di compassione o cura per l’altro, do sole («Ce sta ’o sole…, ’o sole», ecco come apre il racconto Un paio di occhiali della Ortese) infine, per il batter d’ali di un sapore come quello di un caffè ristretto, democraticamente accessibile a tutti, e da tutti amato, (già lo cantava l’indimenticato Pino Daniele, «Na’ tazzulella ’e cafè e mai niente ce fanno sapè», con un chiaro riferimento alla divisione tra il popolo e chi comanda), come dimostrano i giovani camerieri che volteggiano per le strade reggendo un vassoio coperto pieno di tazzine fumanti da recapitare nei negozi e negli uffici.

I vasci chiudono le imposte, dentro si fa buio, qua e là alzando lo sguardo, il baluginio azzurrino di qualche televisore ancora acceso che si riverbera sulle pareti di un salotto. Domani è un altro giorno, ai Quartieri, uguale a quello precedente, eppure nuovo e pieno di sole.

«È antico detto, e popolaresco, a Napoli, che gli uomini sono eguali non solo di fronte alla morte, ma di fronte alla vita».
(Curzio Malaparte)