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La vulnerabilità degli habitat costieri

Mondo sommerso - Mari e oceani subiscono sempre più pressione antropica sulle loro fasce litoranee 1. Parte
/ 25/09/2023
Sabrina Belloni, testo; Franco Banfi, fotografie

Circa il 70 % della superficie terrestre è ricoperto da mari e oceani. Essi sono talmente estesi da far apparire blu il pianeta visto dallo spazio. Lungo questa superficie sferica, dalle mille sfumature di colore che arriva fino al verde, sono circa 620mila i chilometri lineari di coste che delimitano le terre emerse – come se percorressimo 15,5 volte la circonferenza equatoriale massima della Terra.

Poiché la maggior parte delle aree costiere sono inospitali, è ancora più sorprendente constatare che circa 3,5 miliardi di persone – oltre il 44 % della popolazione mondiale attuale – si addensino nei rimanenti territori litoranei che lambiscono i mari e gli oceani, entro i 150 km dalle coste. Il trend di crescita della popolazione lascia adito a pochi dubbi sull’incremento della densità degli abitanti per due chilometri in questi spazi, considerato che negli ultimi cento anni essa è aumentata del 400%, soprattutto per l’incremento demografico in Asia e Africa (fonte ONU).

La Strategia Europea per la Biodiversità chiede di proteggere, entro il 2030, almeno il 30% dei mari europei

Le disuguaglianze sociali ed economiche spesso pongono i membri più vulnerabili della società in alcuni dei territori più sensibili ed esposti. Se le tendenze demografiche e socioeconomiche attuali non cambieranno, la perdita di vite umane e di beni in tali aree è destinata ad aumentare in modo significativo nei prossimi decenni.

Vivere nella fascia costiera

I benefici derivanti dall’accesso alla navigazione oceanica, ai combustibili fossili, al commercio via mare, alla pesca, al turismo, alle attività ricreative e al benessere (fisico, psicologico, economico e sociale) di vivere in prossimità delle coste sono elementi innegabili che favoriscono una maggiore pressione antropica sulle fasce litoranee. E poiché ovunque gli esseri umani vadano nel mondo, lasciano il segno, a farne le spese maggiori sono gli ecosistemi naturali complessi, messi severamente a rischio dall’urbanizzazione e da attività come l’agricoltura, la pesca, l’acquacoltura, la navigazione, il turismo, quando esse sono svolte in modo inadeguato e non sistemico. La crescita della popolazione, dello sviluppo e dell’economia determina un incremento della quantità delle attività svolte e del valore delle zone vulnerabili, caratterizzate da diversità ecologiche elevate e complessità biofisiche eccezionali rispetto sia all’entroterra, sia alle profondità marine (anche poco distanti dalle coste). Spesso a discapito della qualità di tali attività, svolte di solito in modo individuale e raramente in modo coordinato.

Sfide ambientali

L’adattamento ai cambiamenti (anche climatici e ambientali) è una delle maggiori sfide che tutti gli esseri viventi (animali e vegetali) affrontano fin dal concepimento e fin dalla notte dei tempi. L’adattabilità (la capacità di mutare) è un elemento fondamentale, tanto quanto la resilienza (la capacità di resistere e riorganizzarsi). È ormai ben noto che le mutazioni ambientali (anche violente) vivono una accelerazione inattesa, nonostante ci siano reazioni (rivelatesi finora inadeguate) agli allarmi (e allarmismi) che si sono succeduti e che vengono diramati regolarmente in ogni continente e da ogni dove (in ambito politico, sociologico, ambientale, eccetera).

Tuttavia, raramente i cambiamenti vengono contestualizzati. Va da sé che gli impatti ambientali e sociologici dei cataclismi in una tundra inospitale sono diversi di quelli che si manifestano in fasce costiere densamente popolate, in Paesi economicamente poveri e sovraffollati, oppure in nazioni ricche o scarsamente popolate.

Nelle zone tropicali e temperate (cioè laddove le condizioni climatico/ambientali favoriscono una maggiore densità abitativa), le barriere coralline (delle quali parleremo nella seconda parte di questa serie), le paludi costiere e le mangrovie (che saranno oggetto di approfondimento nella terza e ultima parte) proteggono i territori litoranei e ne aumentano la resilienza verso eventi climatici estremi come piogge torrenziali, allagamenti, mareggiate che sono causati da tifoni, tempeste e uragani, i quali occorrono più frequentemente in conseguenza del cambiamento climatico (innalzamento delle temperature, incremento della salinità degli oceani, deviazione delle correnti marine eccetera).

Ricercatori di Nature Conservancy hanno rilevato che i mangrovieti sono le barriere più efficaci in ogni condizione meteo-marina, sia durante le tempeste, sia in fasi di quiete, seguiti appresso dalle barriere coralline e dalle paludi costiere, per mitigare l’impatto delle onde e delle correnti, riducendo la vulnerabilità delle coste. Però, soprattutto, hanno constatato (senza sorprese) che i tre diversi habitat si completano a vicenda, essendo eccezionalmente funzionali laddove presenti contemporaneamente.

Degrado e ripristino

Il crescente degrado degli ecosistemi costieri di tutto il mondo evidenzia il loro ruolo cruciale nella regolazione del clima, nel fornire risorse alimentari e contribuire al benessere sociale. La maggior parte di questi ecosistemi sono stati significativamente alterati dalla complessa interazione tra pressioni antropiche (ad esempio: lo sfruttamento eccessivo della pesca, l’inquinamento terrestre e marino, l’acquacoltura) e quelle legate al clima (solamente per ricordare gli esempi più comuni: l’aumento delle temperature del mare che talvolta provocano ondate di calore, gli estremi meteorologici, l’acidificazione degli oceani) compromettendo la loro resilienza alle perturbazioni consecutive e la loro capacità di fornire servizi ecosistemici.

La Strategia Europea per la Biodiversità richiede di proteggere, entro il 2030, il 30% dei mari europei e il 10% in modo rigoroso in ciascun Paese dell’Unione. Il progetto va oltre gli obiettivi di tutela e protezione: propone infatti di invertire il degrado degli ecosistemi mediante interventi di ripristino che fanno uso di protocolli consolidati, su una scala spaziale molto vasta mai tentata prima. Il progetto Rest-Coast, finanziato dall’Ue per 17,8 milioni di euro erogati in un periodo di 4,5 anni (dall’ottobre 2021 al marzo 2026), riunisce 37 partner di 11 nazioni per valutare i servizi ecosistemici delle paludi costiere, delle praterie marine e delle dune costiere, per ridurre i rischi di erosione e di inondazioni, migliorando la biodiversità.

Rest-Coast intende dimostrare come un’attività di ripristino diffuso dell’ambiente costiero e di ecosistemi costieri vulnerabili, come zone umide o fanerogame marine, possa portare a un abbattimento delle emissioni di carbonio, a una riduzione dei rischi che minacciano tali ambienti e a un incremento in termini di biodiversità. Per raggiungere questo ambizioso scopo, Rest-Coast sta promuovendo una serie di servizi ecosistemici volti a contrastare problemi costieri urgenti come l’erosione, le inondazioni e l’accelerazione del degrado degli habitat costieri in nove casi pilota rappresentativi di Mar Baltico, Mar Nero, Mare del Nord, Oceano Atlantico e Mar Mediterraneo.

I risultati ottenuti sostenendo i progetti pilota consentiranno di provare l’importanza di una attività di ripristino capillare dell’ambiente costiero ai fini del raggiungimento degli obiettivi del Green Deal Europeo (riduzione delle emissioni del 50-55% e favorire la biodiversità entro il 2030), supportando e guidando un processo di trasformazione della governance e delle strutture finanziarie che, ci si auspica, porterà da un lato al mantenimento a lungo termine delle politiche di ripristino ambientale costiero, dall’altro a considerare i servizi ecosistemici costieri nelle politiche nazionali e internazionali.