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Gli artisti sono filosofi contemporanei
Intervista ◆ Vittoria Matarrese ci racconta spirito e progetti per la nuova Villa Heleneum
Ada Cattaneo
Lungo quel tratto di lago che da Castagnola porta a Gandria, la Fondazione Bally ha aperto lo scorso aprile la sua nuova sede luganese. Fortemente voluta dal CEO della casa di moda svizzera, Nicolas Girotto, la fondazione che ha trovato casa presso Villa Heleneum è diretta da Vittoria Matarrese (nella foto) che per dodici anni è stata a capo della sezione di arti performative del Palais de Tokyo, il museo di arte contemporanea della città di Parigi. In un’intervista con lei scopriamo di più sul progetto luganese.
Com’è iniziata la sua esperienza con la Fondazione Bally?
Per caso, quando Nicolas Girotto cercava qualcuno per dirigere la fondazione. Dopo questo incontro, si è capito che potevamo fare qualcosa insieme. Quando ti si propone un progetto così incredibile non puoi esitare un attimo. Una fondazione, come una pagina bianca, in cui tutto è da scrivere, non è un’occasione che capita mille volte in una vita. In più, su un paesaggio così bello. È stato per me un colpo di fulmine e ho subito realizzato che dovevo aprire una fondazione e al contempo pensare a una prima mostra. Quando ho cominciato a riflettere sui temi possibili, il paesaggio è stato un elemento preponderante, perché il mio rapporto con questo luogo è essenzialmente legato alla natura che lo circonda, al modo in cui la villa è stata concepita. Quindi è nata una riflessione sul lago che circonda la villa. Da subito l’ho percepito come un passaggio interiore, poiché credo che susciti una forma di introspezione molto profonda. Un lac inconnu, il titolo della mostra che si potrà visitare ancora fino al 24 settembre, è una frase di Proust che voleva definire il subconscio, indicandolo proprio come le acque di un lago sconosciuto. Quindi ho stabilito questo legame fra paesaggio esterno e un paesaggio più intimo e personale. L’idea poi è stata che ogni artista rispondesse in maniera personale a questa sollecitazione. Quindi i paesaggi che sono presentati sono tanti e variamente articolati. È così che ha avuto inizio l’avventura alla Fondazione Bally.
Villa Heleneum ha una storia particolare. Quale rapporto state provando a costruire con questo luogo?
A volere la villa è stata la ballerina tedesca, Hélène Bieber, che lavorava in Francia ma risiedeva in Svizzera. Stiamo provando a ricostruire il puzzle della sua vicenda. Era un personaggio haut en couleurs, pittoresco. Lei aveva voglia di creare qui un luogo dove ricevere artisti e intellettuali, una specie di salotto culturale. L’idea è di rispettare l’anima del luogo, cioè di ricevere, di dare e di offrire cultura nel rispetto dell’architettura del luogo. L’architetto tedesco Hugo Dunkel, incaricato dalla Bieber di realizzare l’edificio, fu molto bravo: all’epoca la tecnica per avere delle aperture sull’esterno così grandi non era molto sviluppata. Lui, invece, ha pensato a una struttura dei soffitti con inserimento di travi in metallo per poter avere finestre molto ampie, facendo poi abbassare tutte le ringhiere per garantire la vista migliore possibile sul panorama. È una dimora completamente rivolta verso il paesaggio, pensata per il paesaggio, con una suite di saloni uno di seguito all’altro.
Che anni erano? So che qualche luganese ricorda ancora di avere incontrato la proprietaria.
La villa viene costruita fra il 1930 e il 1934, prendendo a modello il Petit Trianon di Versailles. Lei in realtà ne approfitterà pochissimo, considerato che la guerra porterà molte persone a lasciare Lugano e la Svizzera. Si presentava ai suoi ospiti con mise di grande effetto, una specie di Eleonora Duse. Secondo me c’era anche un tentativo di emulare la situazione che si era andata a creare al Monte Verità, dove soggiornava la grande ballerina Isadora Duncan. Paradossalmente in quegli anni ci fu un’ondata fortissima di libertà culturale, che sarebbe ritornata solo negli anni Settanta. Nel mezzo tutto si richiuse su sé stesso, all’insegna del rigore. Ma prima si era andata a definire una sorta di specificità ticinese, con luoghi di questo genere, grazie soprattutto alla presenza degli artisti che vi confluivano da fuori. Mi piacerebbe tanto seguire la falsa riga di queste esperienze e creare un luogo davvero ospitale per artisti e pubblico, dove si possa riflettere sull’arte contemporanea.
Il mito del Ticino terra d’artisti si scontra però spesso con il contesto locale, che non per forza recepisce questi impulsi. Spesso questi artisti dovevano e devono lottare per integrarsi con il territorio…
Questo è sempre il problema dei territori dove ci sia una grande borghesia che certo ammira gli artisti, ma pur sempre da lontano. Perché è difficile vivere e seguire il quotidiano degli artisti, che hanno idee e modi di vivere fuori dall’ordinario. Quindi si finisce spesso per non capirli. Spero che effettivamente la Villa Heleneum possa fare da tramite tra un territorio classico e una proposta un po’ più audace. Perché effettivamente ci sono diversi centri d’arte sul territorio, ma si tratta in prevalenza di realtà istituzionali. L’idea per noi è di andare a lavorare su ambiti che siano meno istituzionalizzati, avendo libertà di proporre attività che non sempre sono possibili nel pubblico. Io vengo dal mondo delle istituzioni pubbliche, dove so essere necessario rispettare certi criteri. Qui invece possiamo sperimentare cose diverse.
Fatta la prima mostra avete già in mente una programmazione?
È un po’ complicato pensare a tutto allo stesso tempo, al programma delle attività e all’organizzazione della Fondazione ma sto già preparando le prossime due mostre. L’idea iniziale era di averne due all’anno: un group show da inaugurare in primavera e un solo show in autunno, quindi una mostra più introspettiva per l’inverno e qualcosa di più semplice e collettivo per l’estate. Per l’autunno alle porte stiamo preparando un’esposizione con un’artista saudita, Sara Brahim che vive negli Stati Uniti. Credo molto in lei: siamo i primi a offrirle una mostra personale in Europa e forse nel mondo.
Che cosa le piace del suo lavoro?
Sara Brahim viene dalla danza per poi abbracciare le arti visive. Ma la sua provenienza è ancora ben riconoscibile: c’è in lei qualcosa di molto particolare, seppur così giovane è un’artista con un’immensa spiritualità. Poi mi piaceva questo clin d’oeil a Hélène Bieber grazie al legame con la danza. In primavera mi piacerebbe invece proporre una riflessione più sostenuta sull’ecologia, sulla natura, magari integrando anche altri territori della città oltre a Villa Heleneum. Si potrebbe tracciare una sorta di percorso di approfondimento nella natura attraverso la sguardo degli artisti. Nel contempo stiamo creando una serie di programmi paralleli, come talk, manifestazioni, atelier per le scuole, da svolgersi a partire dall’autunno.
Per il futuro su cosa le piacerebbe lavorare?
È proprio il contesto che mi interessa: già di base non volevo una fondazione senza radici, perché credo che i luoghi meno interessanti al mondo siano quelli con mostre che potresti vedere identiche a New York, a Tokyo o in qualsiasi altro paese. L’idea è proprio quella di mettere radici, di ragionare entro una geografia, quindi lavorare sul lago, la montagna, la natura, il contesto storico e culturale, la spiritualità che questo luogo sa suscitare e il suo passato. Il tutto calato in un contesto contemporaneo: vorrei invitare artisti in residenza, per farli lavorare su tematiche che esistono solo qui. Loro, gli artisti, sono i filosofi contemporanei, persone che ci aiutano a guardare e ad analizzare il mondo con occhi nuovi.