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Puntate precendenti
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Le nuove povertà/41
Lidia Ravera
Da una settimana le finestre dell’appartamento di via Giulia erano chiuse e sbarrate dagli scuri. Betta aveva preso l’abitudine di andare a prendere la figlia a scuola, per concedersi quel quotidiano ronzare attorno al palazzo dove abitava Von Arnim, fantasticava di incontrarlo mentre era con Sara. E che le facesse salire tutte e due fino alle sue sontuose stanze. Immaginava l’impressione che avrebbe fatto quel lusso sulla ragazzina. «Mamma, sposalo, è impaccato di soldi!», avrebbe detto. O forse no. Certo la povertà induceva al disprezzo per i genitori adolescenti cresciuti senza altro obbiettivo che possedere questo o quell’oggetto, fotografarlo, condividerlo in rete. Farsi invidiare.
I poveri non erano per definizione invidiabili.
E poi: che poveri erano loro?
Poveri per scelta. Per presunzione di potere.
Avevano mai pensato di andare a lavorare e basta? In un ufficio, in una fabbrica o in un negozio? Senza gratificazioni che andassero al di là dello stipendio o addirittura del salario, a fine mese? No, mai.
Quindi né invidia né pena.
Che cosa suscitava lei, agli altri abitanti del mondo?
Era a pochi metri dal portone di casa quando vide Tom uscire, istintivamente si fermò, e si finse intenta a frugare nella borsa, osservandolo di sottecchi. Non si era accorto di lei, e stava imboccando la strada che portava al lungotevere. Decise di seguirlo. A distanza. Era svelto, leggermente gobbo come se portasse addosso un peso che gli faceva chiudere le spalle.
Betta percepì nettamente, nel guazzabuglio dei suoi sentimenti, una specie di disperata tenerezza.
Ne avevano parlato, del divorzio. Ne parlavano spesso. Come, prima che lui la mettesse incinta, parlavano spesso dei due bambini che avrebbero messo al mondo e che avrebbero educato con gioviale saggezza e giocattoli moralmente significativi.
Quando la gravidanza era diventata una realtà, era scaduta come argomento di quelle conversazioni a bassa voce, cariche di pathos, che seguivano, per lo più, un accoppiamento felice.
La bambina aveva tre anni quando avevano incominciato a parlare di divorzio.
Ma si trattava, lo ammettessero o no, della meccanica del litigio, un copione che avevano perfezionato negli anni, e che, inevitabilmente, li portava a paci sontuose, in cui le loro anime si aggregavano con la forza dello scampato pericolo e le lacrime di Betta servivano da lubrificante per una appassionata compenetrazione dei corpi.
Del divorzio come di una svolta possibile per uscire dal pantano in cui si agitavano senza muoversi da mesi, avevano ricominciato a parlare da pochi giorni.
Da pochi giorni, il discorso sul divorzio era uscito dalla stanza dello psicoanalista di Betta per insediarsi nella tana di Betta e Tom. Ne parlavano con una simulata freddezza, la mattina, mentre «la bambina» era a scuola.
«Tu vai a vivere da tua madre, magari ti porti Sara».
«Certo, buona idea… così Esther e Candido mi sotterrano di prediche sulla mia immaturità, sulla precarietà in cui viviamo immersi come…».
«D’accordo, tu vai a stare da Nicola e Sara va dai Fortuzzi»
«Se il problema è che vuoi restare sola…».
«E se fosse?»
«Quindi il problema non sono io».
«Siamo noi, il problema».
«Il problema è che non siamo riusciti a diventare NOI, siamo due io sgomitanti sull’orlo del baratro».