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Il patrimonio botanico di Carl Schell
Storia dell’attore tedesco che a Brissago trovò il suo «luogo dell’anima»
Benedicta Froelich
Sebbene tutti siano d’accordo nell’affermare come il clima favorevole possa definirsi la principale attrattiva che rende il Ticino una delle destinazioni preferite da viaggiatori provenienti dai ben più rigidi panorami della Svizzera interna, spesso si tende a dimenticare quali incredibili opportunità tale clima possa offrire, non solo in termini turistici; e una delle meno conosciute meraviglie naturali che il clima del Ticino abbia prodotto la si deve nientemeno che a Carl Schell, figura in realtà nota principalmente per i suoi exploit artistici.
Dal momento del trasferimento a Casa Esperanza, Schell cominciò a collezionare piante esotiche da ogni angolo del mondo
Carl apparteneva infatti a una famiglia i cui membri erano tutti destinati a carriere di successo nel mondo del cinema: fratello dei più noti Maximilian (due volte nominato per il premio Oscar) e Maria, nonché della più giovane Immy, il secondogenito degli Schell era nato nel 1927 a Wolfsberg (Austria). Come molti artisti appartenenti a quella gloriosa stagione del cinema germanico bruscamente interrotta dall’ascesa del nazismo, gli Schell lasciarono il loro Paese per il porto sicuro rappresentato dalla neutrale Svizzera già dopo l’Anschluss del 1938; una volta stabilitosi a Zurigo con il resto della famiglia, Carl avrebbe intrapreso una lunga carriera come attore e regista teatrale, sebbene siano stati i film e le serie televisive a cui prese parte tra gli anni ’50 e ’60 a renderlo noto al grande pubblico.
Fu proprio poco dopo, nei primi anni ’70, che Schell si ritrovò infine in Ticino, per la precisione nel Locarnese. E non fu il solo: sarà stato il clima accattivante, o magari l’attrattiva rappresentata da un Paese parzialmente germanofono situato nel cuore dell’Europa, ma diversi colleghi e connazionali di Carl avrebbero presto popolato la medesima zona – tanto che Gustav Fröhlich, indimenticato protagonista del capolavoro di Fritz Lang Metropolis, fu per decenni suo vicino di casa a Brissago.
Eppure, il Ticino portò Schell a scoprire qualcosa destinata a divenire per lui ben più importante di qualsiasi traguardo o successo artistico: si trattava della natura, per la precisione dell’arte di nutrire e crescere pazientemente fiori e piante. La sua non era semplicemente una passione per il cosiddetto hobby del «pollice verde»: Carl puntava molto più in alto, ed ebbe il coraggio di andare fino in fondo nella realizzazione del suo grande sogno, dando vita a ciò che lui stesso avrebbe definito come il proprio «capolavoro».
Dal momento del trasferimento a Casa Esperanza, la sua villa di Brissago, Schell cominciò infatti a collezionare piante esotiche da ogni angolo del mondo, per poi piantare gli esemplari da lui prescelti nel grande giardino di oltre 4 km quadrati che circondava l’abitazione; nell’arco di un trentennio, avrebbe così accumulato un patrimonio botanico che sarebbe valso a Casa Esperanza una meritata fama internazionale, principalmente grazie a quella che è a tutt’oggi considerata la più grande collezione di palme di tutta Europa, con oltre cento varietà diverse (negli anni ’80, Schell riuscì a procurarsi perfino diverse sottospecie di Ceroxylon Quindiuense, originaria della Colombia e comunemente nota come «palma della cera»). In questo lussureggiante paradiso, l’attore visse per oltre quarant’anni insieme alla moglie Stella, sposata nel 1970; e qui la coppia crebbe i suoi due figli, Marco e Caroline. Non solo: immortalato da un documentario realizzato dalla TSI nel 1982 (Il giardino meraviglioso), il capolavoro di Schell fu da egli stesso illustrato in un libro autobiografico, Die ganze Welt in meinem Garten (2002), a dimostrare quanto importante fosse per lui questo «luogo dell’anima».
Chi scrive ha avuto la fortuna di conoscere Carl Schell proprio poco tempo dopo la pubblicazione di questo volume, quando l’attore, ormai ritiratosi dalle scene, si dedicava esclusivamente al suo «Palmengarten», che mi fu permesso di visitare in un assolato pomeriggio di primavera. L’angolo di paradiso di Carl era un luogo per molti versi onirico, in quanto slegato e disgiunto da qualsiasi concetto di tempo o spazio: una volta usciti sulla terrazza della villa, a prima vista nascosta dal fianco della collina, ci si trovava davanti il lussureggiante giardino che, in puro stile ticinese, risultava solo in parte pianeggiante, essendo strutturato a gradoni progressivamente digradanti verso la riva del lago Maggiore – del quale si godeva una vista mozzafiato. Qui, in un tripudio di colori vividissimi, convivono a tutt’oggi fiori e piante provenienti dai quattro angoli del mondo, molte delle quali non appartenenti alle nostre latitudini: proprio come in un orto botanico ottocentesco, circondano ancora le decine di palme che si innalzano rigogliose da ogni angolo.
«Non ho paura della morte: non si muore, ci si trasforma soltanto», disse Carl Schell nel 2016, poco dopo essere scampato a una grave setticemia; e poiché quando se ne andò (nel 2019, a 91 anni suonati), la villa e il giardino erano ormai divenuti troppo impegnativi da gestire e venivano già ceduti in affitto a turisti danarosi, è probabile che il pensiero di dover lasciare il suo Palmengarten sia stato uno dei pochi rimpianti al termine di una vita davvero piena e felice.
Oggi, di quel lungo pomeriggio trascorso nel giardino-capolavoro di Carl Schell rimane nella mia memoria una frase in particolare pronunciata dall’artista, e che vale più di mille discorsi: «non so proprio come le persone possano appassionarsi alle rockstar o ai divi del cinema, e non rimanere piuttosto catturati dalla bellezza di una cosa di gran lunga più meravigliosa: un fiore che sbocci».