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Lo svelarsi di una voce turbata
Anniversario ◆ Il 20 maggio del 1973 ci lasciava Carlo Emilio Gadda. Il ricordo attraverso lettere e diari
Pietro Montorfani
Nel 1988 uscirono presso l’editore Garzanti di Milano le Lettere a Gianfranco Contini a cura del destinatario, una raccolta di 77 missive spedite da Carlo Emilio Gadda (nella foto) al celebre filologo piemontese sull’arco di oltre un trentennio (1934-67), dall’epoca del Castello di Udine a quella della Cognizione del dolore. Dato che il «destinatario», nonché curatore del libro, era naturalmente Contini, che di edizioni un po’ se ne intendeva, quell’importante capitolo di epistolografia novecentesca sembrava essere stato chiuso ancora prima di cominciare. E invece no: nel 1998, scomparso oramai Contini, uscì una nuova versione del carteggio a cura di Giulio Ungarelli con importanti ritrovamenti (62 inediti), e una terza fu approntata da Dante Isella negli ultimi anni di vita e gli venne pubblicata postuma nel 2009.
Se dalle lettere passiamo alle opere, il discorso paradossalmente non cambia: i cinque volumi in sei tomi pubblicati nei Libri della Spiga Garzanti dal 1988 al 1993, e che avrebbero voluto essere l’opera omnia di riferimento per anni a venire, sono stati ampiamente superati dai fatti e contano oggi quasi soltanto come oggetti di antiquariato. Nonostante l’armamentario filologico sfoderato in quell’occasione, e i grandi nomi che erano scesi in campo sin dagli anni Trenta per celebrarne l’originalità e la profondità di indagine esistenziale, l’essenza più profonda di Carlo Emilio Gadda continua insomma a sfuggire anche agli esegeti migliori. Come una pantera dantesca di cui si senta soltanto l’odore, ma che non sia mai possibile vedere né catturare per davvero. Si prenda quale esempio estremo il commento monstre terminato nel 2016 da Maria Antonietta Terzoli e dai suoi allievi dell’Università di Basilea, un’imprescindibile guida di lettura del Pasticciaccio. Pur se passati ai raggi X, i fatti di via Merulana non hanno perso un grammo del loro più intimo mistero.
Che quello gaddiano sia oramai diventato il maggiore cantiere filologico del Novecento italiano è fuori di dubbio, e si deve credo a due fattori che si alimentano a vicenda: da un lato la vita tormentata del nostro, le sue paranoie, la famiglia, i traslochi, le vicende professionali, tutti elementi che hanno prodotto una grande quantità di carte, nascoste, perdute, ritrovate, prima e dopo la morte di Gadda (e oggi gestite per lo più dall’erede Arnaldo Liberati); dall’altra una squadra di agguerriti e caparbi studiosi capitanati dallo stesso Isella – finché fu in vita – che non hanno mai abbandonato l’osso dell’esegesi, arrivando a produrre negli ultimi anni, dopo il passaggio dei diritti da Garzanti ad Adelphi, una serie di gustosi aggiornamenti sempre sostenuti da ricerche esemplari. Dal 2007 in poi, e specie dopo il 2016, non è praticamente passato anno senza una versione rivista e arricchita dei principali testi gaddiani. E poiché il merito del lavoro va sempre riconosciuto, è giusto ricordare i nomi dei principali protagonisti di questa impresa, da Paola Italia a Giorgio Pinotti, da Claudio Vela a Liliana Orlando, degni eredi della loro scuola pavese.
L’ultimo titolo in ordine di tempo, legato in corda doppia a La guerra di Gadda. Lettere e immagini (1915-19) curato due anni or sono da Giulia Fanfani, Arnaldo Liberati e Alessia Vezzoni, è la riedizione ampliata del Diario di guerra e di prigionia, steso dall’autore quando ancora non si era manifestata in lui un’inequivocabile vocazione letteraria, in più quaderni e in momenti diversi della sua esperienza di combattente nell’esercito italiano durante il primo conflitto mondiale. Il cronotopo è naturalmente il medesimo del giovane Ungaretti, che si scoprì poeta nel fango di quelle stesse trincee, e qualche armonica risuona simile (ma sarà un caso): «Preghiera. Umanità. Gli italiani hanno capito, hanno funzionato; speranze e trepidazioni. […] Cerco di raccogliere i miei pensieri e fo voti di venir presto restituito alla vita, al lavoro» (Celle-Lager, Hannover, 7-9 novembre 1918, pp. 410-418).
Uscito una prima volta nel 1955, non senza i soliti patemi d’animo cui Gadda aveva oramai abituato editori ed amici, il diario era stato ristampato con varianti già nel 1965 e fu riproposto di nuovo nel 1991 da Isella a seguito del ritrovamento di ulteriori pagine inedite. Altre, e ben più sostanziose, sono quelle che possiamo leggere oggi, e sui cui contenuti gli apparati del libro sorvolano forse con un po’ troppa fretta (impeccabile invece, come sempre, la resa filologica). Si prendano i meravigliosi paragrafi in cui l’autore prova a descrivere l’essenza dello spirito tedesco – cioè il nemico – con accenti che stanno a metà tra un’indagine antropologico-naturalistica alla Lucrezio e una sottilissima presa per i fondelli: «I vagoni ferroviari scricchiolavano rugginosi, andando senz’olio nelle pianure deserte, pei campi arati dagli schiavi Russi. Ma davanti alla fame e all’ultimo sacrificio s’aprivano le fertili pianure del mondo, le profumate riviere e il mare apportatore di benessere. A ogni nato in terra tedesca il sole e la terra avrebbero generosamente sorriso, mentre l’operaio straniero si curverebbe sotto il giogo tedesco credendolo […] un giogo patrio».
Altre pagine inedite, soprattutto quelle dei primi mesi di guerra, sono decisamente più aride, quasi notazionistiche, e proprio per questo diventano degli importanti documenti storici, comprensivi di disegni della linea del fronte e delle baracche in cui era assiepato l’esercito italiano. E non possono non far sorridere i tentativi del giovane tenente, a un passo dalla laurea in ingegneria elettronica, di risolvere complessi problemi matematici nei tempi morti. È in questo contesto, assai poco favorevole agli stimoli culturali, che tra una pagina e l’altra di diario vediamo nascere il futuro scrittore: una tensione stilistica che si esplicita per mezzo di scarti dalla norma, impennate ironiche, una sintassi mai banale e piccoli ma crescenti pastiche linguistici (qui soprattutto in dialetto lombardo, latino e tedesco, più tardi anche in romanesco e spagnolo), insomma tutti quei tratti che sarebbero passati poi a caratterizzare le opere maggiori. Una voce, la sua, che è sempre in qualche modo turbata, come si intorbidano le acque di uno specchio lacustre o le onde di un campo magnetico. Se lo leggiamo ancora con gusto a tanti anni di distanza, nonostante le innegabili difficoltà che impone da sempre ai lettori, è perché quel turbamento (linguistico, umano, morale) non ha ancora smesso di svolgere la propria funzione.