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Suad Amiry, architetta e scrittrice resiliente
«Quando si tocca il fondo può solo andare meglio», dice l’intellettuale palestinese sulla situazione attuale nel suo Paese
Angelo Ferracuti
Suad Amiry (nella foto) è una scrittrice e intellettuale palestinese vissuta ad Amman, Beirut, il Cairo, e laureata in architettura alla Michigan University, perfezionando i suoi studi a Edimburgo. Tornata in Palestina nel 1981 ha insegnato per molti anni all’Università di Bir Zeit. Tra il 1991 e il 1993 ha fatto parte delle delegazioni palestinesi per la pace in Medio Oriente agli incontri negli Stati Uniti. Il suo romanzo Sharon e mia suocera (Feltrinelli), un diario autobiografico, è stato un successo internazionale tradotto in undici lingue.
Suad Amiry, lei ha iniziato a scrivere nel 2002 quando gli israeliani hanno occupato Ramallah, costringendo la popolazione a un coprifuoco di 44 giorni. La sua scrittura nasce come forma di resistenza, o come l’ha definita meglio di resilienza, quella del popolo palestinese. Quel diario diventò il suo primo libro Sharon e mia suocera (Feltrinelli), un testo che racconta il dramma del suo popolo però con un irresistibile humor.
Ho iniziato a scrivere quando le forze israeliane hanno rioccupato la città. Occuparono anche la sede del presidente Arafat, e a quel tempo mia suocera di 91 anni viveva sola, grazie a dio, proprio vicino alla Muqataa, il suo quartier generale. A seguito del coprifuoco di 44 giorni imposto dagli israeliani, sono stata obbligata a portarla a vivere con me. E da quel momento ho vissuto due occupazioni: una interna e civile a casa da parte di mia suocera, e una esterna da parte dell’esercito israeliano del generale Ariel Sharon. Grazie alla pressione di entrambe queste occupazioni si è rivelata la scrittrice che è in me. Così è nato il mio primo libro di guerra: Sharon e mia suocera.
I luoghi, che sia Gerusalemme, Jaffa, o Ramallah, sono molto importanti nei suoi libri e nella sua scrittura. Attinge molto spesso all’autobiografia, come in Damasco (Feltrinelli), dove intreccia la storia di sua nonna e di sua madre con l’insurrezione palestinese del 1929 e con le successive rivolte.
Sì, essendo un architetto prima di tutto, quartieri, mercati, edifici e abitazioni giocano una parte importante nella costruzione dei miei libri, dove eventi personali o pubblici trovano un loro contesto. Città come Gerusalemme, Damasco e Jaffa si presentano in maniera molto forte. Per esempio, in Damasco racconto la città di mia madre e dove sono nata, le storie umane e personali della mia famiglia materna però allo stesso tempo sono anche la storia di un mondo arabo aperto e senza confini che ora non esiste più. E nel mio ultimo libro Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea (Mondadori), racconto la città di mio padre, Jaffa. È una storia d’amore personale tra due giovani palestinesi, Subhi e Shams, ma è anche la storia di un’intera nazione che è stata espropriata, cacciata dalle proprie case, città, villaggi, fattorie, spogliata delle attività commerciali. La mia famiglia era tra quelle che hanno subito questa violenza.
Ogni suo libro incrocia inevitabilmente un momento della storia del suo popolo, che lei racconta attraverso le vicende intime, personali, nello spazio privato, ricostruendole dalla memoria famigliare, dalle emozioni e dai ricordi violati, come in Golda ha dormito qui (Feltrinelli), un libro sul trauma della perdita della casa a Gerusalemme (molti palestinesi furono dichiarati «proprietari assenti» dopo che gli israeliani presero il possesso della città) ma anche delle radici violate.
Golda ha dormito qui si focalizza sui quartieri e sulle case arabe, in quello che divenne poi l’ebrea Gerusalemme Ovest. Il libro fondamentalmente racconta delle case rubate, dove politici israeliani come il primo ministro israeliano Golda Meir hanno vissuto una volta e dove ricche famiglie israeliane vivono oggi, parla di cosa significa per qualcuno perdere la propria abitazione, quali sono gli effetti psicologici o il trauma di dover lasciare per sempre la propria dimora.
Anche il suo ultimo libro edito in Italia, Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea (Mondadori), ha un fondale storico ed è ambientato nel 1948 quando l’esercito israeliano bombarda Jaffa e la occupa.
Sì, il mio ultimo libro che è dedicato a mio padre, morto prima di ritornare a casa, racconta della sua città: Jaffa. Il libro si occupa del momento più difficile della nostra storia, «la Nakba», dove il 90 per cento dei palestinesi furono cacciati dalle proprie case per la creazione dello Stato ebraico. Il romanzo, che copre il periodo che va dal 1947 al 1952, mostra la città prima di quell’evento, vivace e cosmopolita, la sua distruzione e lo spostamento dei suoi abitanti, il prezzo umano che i palestinesi hanno dovuto pagare per la costruzione dello Stato di Israele.
Lei è architetta, insegnante, ma anche direttrice del Riwaq Center for Architectural Conservation a Ramallah, che si propone di conservare l’identità del popolo palestinese attraverso l’architettura con il restauro del patrimonio culturale e la creazione di spazi di aggregazione alternativi alle moschee.
Prima di tutto sono un architetto della conservazione che si preoccupa della protezione dell’ambiente, della natura e del patrimonio culturale sia di siti archeologici sia architettonici. Questo non solo in Palestina, ma anche in altre parti del mondo. Ecco da dove arriva il mio amore per l’Italia. Anche se agli italiani piacerebbe pensare che io ami l’Italia per il cibo, io la amo per il suo patrimonio culturale. Tuttavia, nel caso della Palestina la situazione è differente a causa del pericolo verso tutto ciò che è «palestinese». Non dimentichiamo che tra il 1984-1952 l’esercito israeliano ha raso al suolo circa 420 villaggi che costituivano il 50 per cento dei nostri insediamenti storici. È da qui che nasce il mio interesse nel proteggere il patrimonio culturale, in aggiunta al mio amore per questo campo in generale, ed è per questo che nel 1991 ho fondato a Ramallah il Riwaq, il Centro di conservazione architettonica (www.riwaq.org).
Ha affermato che la situazione di conflitto in Cisgiordania può risolversi solo dando uno Stato ai palestinesi, ma anche dopo l’uscita di scena di Trump sembra un’idea molto lontana, anzi la situazione pare molto estremizzata con il nuovo governo Netanyahu, forse il più antipalestinese della storia.
La situazione attuale è molto pericolosa e triste. In Israele abbiamo il governo più razzista e fondamentalista religioso possibile, personaggi come Bezalel Smotrich, ministro delle finanze, il quale afferma apertamente che non esistono i palestinesi e fa vedere mappe dello stato di Israele che non includono soltanto l’occupata West Bank e la striscia di Gaza, ma anche parte della Giordania! Ma, come diciamo noi in arabo: quando si tocca il fondo può solo andare meglio, significa che il mondo ora ci vede, spero, perché condannare le politiche colonialiste di Israele non ha niente a che fare con l’antisemitismo, cosa di cui è accusato chiunque le critichi.