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La grande stagione dell’editoria italiana

Quattro volumi raccontano storie e protagonisti del mondo del libro tra grandi idee e il coraggio di realizzarle
/ 16/01/2023
Paolo Di Stefano

C’è aria di bilanci nell’editoria italiana. Voglia di storicizzare quel che fino a qualche anno fa era vita (culturale) vissuta. Non sarà una coincidenza se nelle ultime settimane sono usciti numerosi libri che rievocano, ciascuno a suo modo, gli attori del lavoro editoriale del dopoguerra. E in genere lo fanno con accenti quasi epici. Come se il mondo narrato appartenesse a una leggenda remota abitata da eroi antichi. Non è difficile capire le ragioni di questo afflato rievocativo, una volta chiusa la stagione dei cosiddetti editori-protagonisti (Giulio Einaudi è morto nel 1999, Paolo Boringhieri nel 2006, Elvira Sellerio nel 2010, Livio Garzanti nel 2015, Inge Feltrinelli nel 2018, Roberto Calasso l’anno scorso) e ormai sperimentata (e forse usurata) la stagione pluridecennale del marketing al potere. Sono soprattutto i «sopravvissuti» a riflettere su quel che è stato. E tra questi due figure di notevole rilievo per prestigio e carriera come Ernesto Ferrero, che è stato direttore einaudiano di lungo corso, e Gian Arturo Ferrari, traghettatore della Mondadori berlusconiana per un paio di decenni. Il primo con Album di famiglia (Einaudi), il secondo con Storia confidenziale dell’editoria italiana (Marsilio). Due libri di diversa fattura e di diversissimo stile, quasi complementari. A cui si aggiunge un romanzo biografico su Alberto Mondadori, scritto dal nipote Sebastiano, figlio della figlia Nicoletta (Verità di famiglia, La nave di Teseo). A cui ancora si aggiunge, Bazleniana (Acquario editrice), una raccolta di materiali, ritratti, riflessioni su Roberto Bazlen, detto Bobi, che fu il maestro di Calasso e il fondatore della casa editrice Adelphi. Insomma, non mancano i motivi buoni per parlare di una summa memoriale e culturale a tutto tondo.

Da queste pubblicazioni, che compongono idealmente un solo libro, tanti e tali sono i fili che si incrociano dall’una all’altra, possiamo trarre qualche considerazione generale su come sono andate le cose e soprattutto una galleria di ritratti straordinari. Cominciando dalla fine del libro di Ferrari: «Ogni casa editrice, piccola o grande, bella o brutta, sta in piedi, quando sta in piedi, su tre cose. L’idea, i soldi e le scoperte». Verissimo, ma fra le tre cose non si vede oggi alcun equilibrio. L’idea, quando c’è, è nettamente subalterna al risultato economico e le eventuali scoperte non sono apprezzate se non in funzione delle risposte del mercato: che cosa ne sarebbe di Saviano se il suo Gomorra non avesse stravenduto subito? Non conta che l’idea sia in sé convincente o nuova, conta che riesca a produrre consenso (e guadagno) immediato, ignorando che l’editoria è un investimento da declinare al futuro: «L’editoria è come l’agricoltura – ama ripetere Ferrero – semini oggi per produrre non fra tre mesi ma fra 5 o 10 anni». E così la sorpresa viene perseguita solo se trova un pubblico ampio. Se non lo trova, diventa subito deludente e stucchevole, dunque viene abbandonata a sé stessa. Si punta sul già noto (il giallo impazza) e si sta sul sicuro, evitando le sperimentazioni che spaventano il lettore.

Questa, salvo eccezioni, è una delle differenze maggiori tra l’editoria attuale e quella del passato, quando il gusto dell’azzardo o la programmazione ideale (e magari poco realistica) superava pericolosamente ogni calcolo mercantile. Il desiderio di bestseller è oggi furioso e cieco, ma la ricerca ossessiva del bestseller non fa i conti con il dio dell’imprevedibilità, che in editoria comanda ancora rendendola una delle imprese più affascinanti e più rischiose: persino i successi di Camilleri o di Elena Ferrante non erano prevedibili. Neppure quello di Gomorra (la vicenda editoriale è raccontata da Ferrari). Sugli equilibri e gli squilibri tra progetto e risultati si concentra l’indagine storico-economica che Bruno Pischedda ha consegnato a La competizione editoriale (Carocci), uno studio degli assetti aziendali e delle strategie in rapporto ai numeri di vendita nell’ultimo secolo e mezzo.

Chi non abbandonò mai l’idea fu Alberto Mondadori, che si ostinò a combattere contro suo padre Arnoldo nel proporre un’alternativa di qualità alla casa editrice «commerciale»: riunendo intorno a sé le migliori menti della filosofia, della critica e della letteratura, fondò il Saggiatore nel 1958 con il grande Giacomo Debenedetti, il critico di Saba, di Svevo e di Proust, con il contributo del filosofo Remo Cantoni e con l’aiuto del poeta Vittorio Sereni, direttore letterario della casa madre, la Mondadori. Questi e altri erano i suoi amici, con i quali alla lunga non riuscì tuttavia a evitare la rottura. La casa editrice eccelsa che Alberto stava costruendo entrò ben presto in crisi per imprudenza e con la casa editrice entrò in crisi (per l’ennesima volta) anche il suo fondatore e proprietario. Così come lo racconta il nipote Sebastiano, suo nonno non era certo un carattere facile, amava la mondanità, in gioventù aveva frequentato l’ambiente romano del cinema (era cugino di Mario Monicelli), è stato una sorta di megalomane e di genio che ospitava a Milano Hemingway, Faulkner e Thomas Mann: il suo guaio fu che, volendo prendere le distanze dal padre, finiva regolarmente per ricorrere a lui quando aveva bisogno di rimediare ai buchi finanziari, e dunque il legame più che allentarsi si complicava. Detto ciò, nonostante le difficoltà psicologiche ed economiche, il catalogo del Saggiatore dimostra una ammirevole apertura disciplinare, grazie anche ad autori di prestigio internazionale destinati a segnare il catalogo con titoli di lunga durata: si chiamavano Sartre, Lévi-Strauss, Simone de Beauvoir, Husserl…

Certo, ci vogliono visione e coraggio. Quel che avevano figure come Alberto Mondadori, Giulio Einaudi, Valentino Bompiani, Livio Garzanti, Paolo Boringhieri, Giangiacomo Feltrinelli… Personalità dai mille difetti sulla cui intelligenza si è costruita la cultura italiana e anche europea del dopoguerra. Spregiudicati? Quasi tutti. Megalomani? Quasi tutti, tranne il grigionese Boringhieri, che Ferrero descrive come il più schivo e riservato degli editori, «il silenzioso gentiluomo svizzero che ha portato la grande scienza in Italia», prudente e parsimonioso amico di Pavese, entrato in Einaudi come redattore e dal ’56 editore in proprio, regista della traduzione di tutto Freud in italiano, un’opera imponente che affidò a Cesare Musatti e soprattutto alle cure amorevoli di Renata Colorni.

Ce ne sono di personaggi da raccontare. Ferrari lo fa con più malizia e con una conoscenza formidabile dei meccanismi interni (culturali, grafici, strategici). Ma l’evidenza è che il grande editore è sì un protagonista, persino un mattoide come Livio Garzanti, ma il suo protagonismo è animato da un fuoco che comprende anche la sensibilità di accogliere, nella propria corte di sovrano illuminato (dagli altri), i migliori collaboratori. Einaudi seppe scegliere Italo Calvino, Massimo Mila, Elio Vittorini, Giulio Bollati e un gruppo di consulenti straordinario. Garzanti si affidò a gente come Attilio Bertolucci, Giovanni Raboni, Oreste Del Buono. Bompiani a Umberto Eco, Paolo Debenedetti, Enrico Filippini. Feltrinelli allo stesso Filippini, a Mario Spagnol, a Valerio Riva, a Giorgio Bassani… L’editoria di libri è sempre un lavoro collettivo che si alimenta di discussioni e confronti. Un lavoro che nasce da una grande o piccola ambizione culturale: dopo, solo dopo, viene la necessaria copertura del denaro.