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Bibliografia

 

Non si può più dire niente. 14 punti di vista su politicamente corretto e cancel culture, a cura di Matteo Bordone, Milano, Utet, 2022.

 

Costanza Rizzacasa d’Orsogna, Scorrettissimi. La cancel culture nella cultura americana, Bari-Roma, Editori Laterza, 2022.


Cancelliamo tutto

La cancel culture, oggetto di un fiorire di pubblicazioni, è fenomeno complesso e ricco di significati e ricadute anche molto generali sulla società occidentale
/ 24/10/2022
Stefano Vassere

Forse non è nemmeno così improprio che il sistema linguistico italiano parli di cancel culture senza cercare di fornirne un’espressione italiana equivalente. Benché non manchino (anzi!) manifestazioni anche clamorose in ambito italiano, il fenomeno ha un luogo di origine, che è indubbiamente la realtà statunitense. Il tema è complesso e riconducibile con fatica a un’essenza unica. Attorno al termine cancel si aggregano per esempio i significati di ‘esclusione’, ‘boicottaggio’, ‘delegittimazione’, ‘emarginazione’, ‘censura’, ‘allontanamento’; e gli ambiti e i contenuti possono essere molteplici, riguardando tra gli altri la violazione di quanto sia ritenuto politicamente corretto, la censura se non la messa all’indice di autori e opere letterarie di tutte le epoche (cinematografiche, teatrali, musicali ecc.), l’abbattimento di statue e monumenti, la messa in discussione nelle università di intere culture come accade agli antichi latini e greci a causa della loro sensibilità verso il genere femminile, temi contingenti (la guerra in Ucraina, le vaccinazioni Covid-19 tra i più attuali). Insomma, un arcipelago di argomenti cui è difficile dare sistematicità, pur potendo registrare modi indubbiamente comuni.

Cercano di sistemare un po’ questo disordine numerose pubblicazioni, che configurano un tema à la page in diversi ambiti della pubblicistica attuale. Tra le migliori opere in italiano ci sono certamente Non si può più dire niente. 14 punti di vista su politicamente corretto e cancel culture, a cura di Matteo Bordone, e Scorrettissimi. La cancel culture nella cultura americana di Costanza Rizzacasa d’Orsogna. Quest’ultimo in particolare richiama il fatto che queste posture culturali vengono dagli Stati Uniti e sono quindi determinanti per l’intero mondo occidentale, che da quella società mutua da un po’ parte rilevante dei propri valori. Valori che sono in ballo anche quando si parli per esempio di chi imbratta la statua di Indro Montanelli ai Giardini di Milano o di chi chiede di affiancare autori ucraini ai corsi su Dostoevskij all’Università (statale) della stessa città.

Sull’università varrà la pena di aggiungere che si tratta, insieme a quello delle scuole, di milieu delicato, in quanto sono spesso attività che vi si svolgono a essere oggetto delle ‘macellerie’ che vedono tra gli attori i giovani studenti e i loro genitori: ne sa qualcosa chi abbia assistito, nella bella e inquietante serie Netflix The Chair, alle disavventure di uno sciagurato professore di letteratura in una università piegata da attenzioni politicamente corrette e da studenti incendiari e intransigenti che finiscono per assicurare al loro insegnante una giustizia dal basso tanto sommaria quanto fuori misura. O basteranno i dati sui libri scolastici proibiti da sgangherate ma efficaci campagne genitoriali.

Nell’affollato panorama della cultura della cancellazione alcuni filoni paiono interessanti al di là delle loro improvvisate soluzioni: può essere importante porsi domande a proposito della necessità di ricorrere a content o trigger warnings, avvertenze di lettura che spiegano le opere; o ci si può interrogare sulla legittimità del mettere alla berlina una scrittrice non nera che decida di occuparsi del razzismo contro gli afroamericani; o, nei casi più estremi, si può chiedersi se l’opera di uno scrittore di valore estetico indiscusso possa finire emarginata o cancellata per fatti, ancorché incresciosi, che riguardino la vita privata di chi l’ha prodotta.

Insomma, tema infinito e scivoloso, e certo cruciale, sul quale si accanisce di sovente uno spazio pubblico (e social) indurito, deprivato del dialogo come lo si intende tradizionalmente e che costituisce una specie di intollerante tribunale collettivo. In ballo sono però le società, il valore e l’accettazione della produzione culturale, l’insegnamento scolastico e universitario e qualche modalità suprema di convivenza civile. Chiamiamolo poco!