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A Barbet Schroeder un meritato Pardo a sorpresa
Intervista al regista de Il mistero Von Bulow che ha presentato fuori concorso il suo documentario Ricardo et la peinture
Nicola Mazzi
Mickey Rourke, Faye Dunaway, Glenn Close, Sandra Bullock, Ryan Gosling, Jeremy Irons, Nicolas Cage, Samuel L. Jackson, Meryl Streep ma anche Charles Bukowski e i Pink Floyd. Sono solo alcuni dei nomi con i quali Barbet Schroeder ha lavorato nel corso della sua lunga e luminosa carriera. Nato il 26 agosto del 1941 a Teheran, figlio di una dottoressa tedesca e di un geologo svizzero, da ragazzo fino al divorzio dei suoi genitori ha vissuto anche in Colombia. Poi all’età di 12 anni, seguì la madre a Parigi. Incontrandolo sai di essere davanti a uno di quei registi che hanno fatto la storia del cinema e che hanno creato immaginari che ancora oggi restano impressi nella memoria di chi è cresciuto negli anni 80 e 90. Il mistero Von Bulow, ma soprattutto Il bacio della morte e Inserzione pericolosa o anche il più recente Formula per un delitto sono film, anche di genere, di sicuro valore che gli hanno pure valso una nomination all’Oscar. È un uomo di cinema a 360 gradi Barbet Schroeder perché, oltre a essere regista, è anche produttore e attore. Infatti, nel 1963 ha fondato (insieme a Éric Rohmer e Pierre Cottrell) la sua casa di produzione Les Films du Losange, che ha contribuito all’esplosione della Nouvelle Vague. E come attore ha fatto alcuni camei nei film dei suoi colleghi di quel movimento e di amici come Tim Burton.
In questa edizione del Locarno Film Festival, Barbet Schroeder è arrivato per presentare, fuori concorso, il suo ultimo progetto intitolato Ricardo et la peinture. Un documentario sull’opera e la conoscenza enciclopedica della storia dell’arte di Ricardo Cavallo, un artista di origine argentina che dal 1976 vive in Francia. Alla prima mondiale di Ricardo et la peniture, sul palco de La Sala, il direttore della rassegna Giona A. Nazzaro, gli ha consegnato un Pardo a sorpresa, per la sua carriera e per quello che rappresenta (la foto ritrae il momento). Un riconoscimento meritato che rende omaggio a un personaggio di primo piano a livello mondiale. L’indomani abbiamo avuto il piacere di intervistarlo. Maglietta e pantaloni neri, sorriso simpatico, arriva accompagnato dal suo produttore Lionel Baier (anche lui regista, tra i più apprezzati della sua generazione). Da Buenos Aires alla Bretagna, passando per Parigi, il documentario ci immerge nella storia dell’arte e ci fa scoprire la vita semplice e umile di un uomo davvero fuori dagli schemi e con un’unica e grande passione: la pittura. Un’arte che, tra le altre cose, trasmette gratuitamente agli allievi della scuola del suo paese. Ricardo et la peinture è la storia di una passione viscerale e simbiotica tra un pittore e la sua arte. Il film parla di Ricardo Cavallo, ma probabilmente anche di Barbet Schroeder e del suo amore per il cinema, che a 82 anni continua ancora a fare.
Signor Schroeder, come ha conosciuto Ricardo e che cosa l’ha attirato in lui?
Dopo il divorzio dei miei genitori, quando andai a vivere a Parigi con mia madre, conobbi Karl Flinker, un gallerista d’arte che divenne un po’ il mio padre spirituale. Qualche anno più tardi, conoscendo la mia passione per l’arte, mi disse di aver incontrato uno dei pittori più geniali mai esistiti e me lo presentò. Quando incontrai Ricardo per la prima volta nel 1982, nel suo appartamento al settimo piano senza ascensore di Neuilly, ne fui davvero molto impressionato e da quel momento diventammo amici. Regolarmente lo incontravo e quando mi recavo a Parigi andavamo a visitare musei. Ogni volta che passavamo del tempo insieme mi dicevo che mi sarebbe piaciuto fare un film su di lui, ma non c’è stato mai il tempo perché il lavoro a Hollywood era davvero impegnativo. Finalmente, un paio di anni fa gliene ho parlato e abbiamo iniziato a progettarlo e poi a realizzarlo.
Di quanto tempo ha avuto bisogno per realizzare questo film?
È stato un lavoro molto libero, in amicizia e con una piccola troupe che lo ha seguito. Siamo stati sul set per tre settimane riprendendolo a casa sua, nel nord della Francia. Ma abbiamo girato anche a Parigi e in altri luoghi a lui cari. Non eravamo per nulla stressati dai tempi, lo abbiamo fatto con piacere e con la gioia di stare insieme.
L’idea di fare un parallelismo con la storia dell’arte le è venuta in modo naturale?
Sin dall’inizio avevo in mente il titolo: Ricardo et la peinture e quindi parlare della storia dell’arte era del tutto naturale. Del resto, lo conosco molto bene e so la sua immensa conoscenza della storia dell’arte e dei pittori. Un aspetto che emerge molto bene dal filmato, dove spiega in modo chiaro e semplice alcuni quadri significativi di diversi artisti.
Come giudica il suo modo di dipingere?
Lui ha sempre basato il suo stile sull’immaginazione creativa, e con gli anni ha ampliato la sua pittura anche nello spazio realizzando dipinti sempre più grandi. Per questo e per una ragione pratica ha iniziato a realizzare quadri divisi in molti piccoli pezzi. Tutto ciò si è sviluppato in modo enorme durante gli ultimi anni. A casa mia, a Losanna, ho il suo più grande dipinto che raffigura la città di Parigi. Sono lavori complessi, che chiedono anche qualche anno di tempo per realizzarli, ma sono davvero incredibili. Ha dedicato la sua vita completamente al lavoro, non ha fatto altro che lavorare con costanza e con passione ai suoi dipinti, alle sue opere.
Perché la scelta di mostrare, in alcuni momenti, la troupe mentre sta girando?
È uno dei vantaggi che si hanno quando si girano i documentari. A mio giudizio mostrare il dietro le quinte, il lavoro della troupe, fa emergere meglio l’atmosfera nella quale abbiamo lavorato, oltre a sottolineare anche la personalità del protagonista. A volte ci sono anche io nel film, non mi piace molto essere inquadrato, ma alla fine abbiamo tenuto quelle scene, realizzate grazie all’uso di più macchine da presa, perché generavano una sorta d’intimità e una bella atmosfera che si è creata tra noi e Ricardo e che spero arrivi anche agli spettatori.
Non possiamo terminare l’intervista senza chiederle di Hollywood. Che esperienza è stata?
Da sempre sono stato un estimatore dei film americani e sin dal primo film More, del 1969 con musiche dei Pink Floyd, ho cercato di trovare la strada per attraversare l’oceano e appena ne ho avuto la possibilità sono andato a Hollywood. Là ho cominciato con alcuni documentari e poi sono passato alla fiction. In particolare, ricordo con piacere Barfly su Charles Bukowski con Mickey Rourke, dal quale poi partimmo per girare The Charles Bukowski Tapes, una serie dedicata al famoso scrittore. Mi ricordo che quella vissuta a Hollywood fu un’epoca di grande lavoro perché, oltre a essere regista ero anche produttore. Altro aspetto al quale ho sempre tenuto è stato quello di avere l’ultima parola sui miei film, il famoso final cut, che non è semplice da ottenere negli USA. Per questo tutti i film che ho girato in America sono lavori ai quali tengo particolarmente e non sono stati deturpati dagli Studios.