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*** Kingsman: il cerchio d’oro

di Matthew Vaughn, con Colin Firth, Taron Egerton, Julianne Moore, Elton John, Jeff Bridges, Halle Berry, Channing Tatum, Bruce Greenwood (Stati Uniti 2017)


Dissacrare, ma in grande stile

In sala il sequel di Kingsman: The Secret Service
/ 02/10/2017
Fabio Fumagalli

Sull’onda di un successo clamoroso e forse all’origine insperato, l’inglese Matthew Vaughn continua a Hollywood la sua opera d’ironica dissacrazione dei vari generi cinematografici. Primo fra tutti, quello di spionaggio: alla James Bond, con i gentlemen in impeccabile doppiopetto gessato che posano, nelle prime immagini del film, davanti alla sartoria Kingsman di Savile Row. Attendono di trasformarsi negli agenti segreti nati dai fumetti di Mark Millar; di affrontare guai fantascientifici come le svicolate stradali più demenziali, nell’illogicità cara a un altro filone, quello dei comics

Tutte parodie, ma non prese sottogamba, e questo grazie a una fattura per tanti versi impeccabile, alla resa fulminea dell’azione, a un montaggio strabiliante, e all’impiego delirante di personaggi contraddittori in situazioni ai confini dell’ammissibile. O, ancora, depravatamente pop: con le strizzatine d’occhio a Tarantino e le micidiali protesi robotiche che tanto piacevano a Cronenberg. Tanta (troppa?) roba, che però Vaughn riesce a riordinare grazie a un intervento registico a tratti sorprendente. Velleitario? Forse, in quanto espresso a tal punto sopra le righe da rischiare ad ogni istante la saturazione. Ma testimone evidente di una possibile via di fuga per certo cinema contemporaneo, spesso alla ricerca di se stesso.

Come il precedente lungometraggio di Vaughn, Kingsman: the Secret Service (2014) dai clamorosi 400 milioni di dollari al box office mondiale, quest’altro Kingsman: il cerchio d’oro è un film ibrido. Che in tanta, esagitata frenesia tenta di non affondare, alla ricerca di un suo non facile equilibrio. E se molto è dovuto alla regia, fra i vari atout vi è certamente il tono squisitamente british (che purtroppo svanisce nella versione doppiata in italiano). 

Fra gli attori di un cast notevole spiccano i maestri della distinzione pronti a sfumare nel dandismo; e se, rispetto all’episodio precedente, è scomparso Michael Caine, resuscita qui, grazie a una furbata un po’ facile, Colin Firth. Inesistente è il protagonista giovane Taron Egerton; ma le sale, in particolare quelle americane, ormai esigono questo genere di attori. Poco male, anche perché una cattivissima Julianne Moore gli ruba a ogni istante la scena. Un grande come Jeff Bridges è lamentevolmente sprecato; ma, in compenso, Elton John riesce ad evadere in mille modi dalla propria icona. Il più curioso è però Bruce Greenwood, nei panni di un presidente degli Stati Uniti a dir poco balordo. Sarà un caso, ma è l’ombra di Trump a incombere.