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Miu, una crudele Peter Pan in tuta blu

La serie Netflix <i>Copenhagen Cowboy<i/> stravolge le regole del formato seriale
/ 27/02/2023
Giorgia Del Don

La nuova serie Netflix del geniale regista danese Nicolas Winding Refn (alias NWR), Copenhagen Cowboy (nella foto un’immagine del trailer), ci invita al confronto con la parte oscura che sonnecchia in ognuno di noi. Esploratore della violenza fino al puro estetismo, Refn non ha paura di mostrarla in modo frontale obbligando lo spettatore a vivere sentimenti contrastanti: il rigetto ma anche, e soprattutto, il fascino. Sebbene ne sia capace (a confermarcelo sono il suo capolavoro Drive ma anche la sua serie per Amazon Prime Too Old to Die Young), il provocatorio regista danese sceglie questa volta di non mostrare le scene di violenza in maniera esplicita ma di mantenerle fuori campo o di suggerirle attraverso il suono: magnifiche le partizioni sonore del suo compositore feticcio Cliff Martinez che regalano alle immagini un’inquietante sensazione di leggerezza. La tetra atmosfera in cui sono immersi i personaggi, popolata da mafiosi albanesi, organizzazioni criminali cinesi e una famiglia di sadici e ricchi allevatori di maiali (che ricorda il cinico Porcile di Pasolini), sembra non lasciare spazio ad altre forme di violenza. Sin dalla prima puntata lo spettatore viene calato in uno stato di allarme, assalito da una crudeltà palpabile che non è necessario mostrare, che esiste in quanto onnipresente virtualità.

Copenhagen Cowboy è capitanato dalla misteriosa Miu (fantastica Angela Bundalovic), un personaggio inafferrabile che sfida ogni categoria. Né umana né aliena, né adulta né bambina, l’antieroina della serie sfida il mondo guidata da una potentissima sete di vendetta di cui non si conoscono tutte le ragioni (a parte il fatto che sin da piccola è stata venduta e ricomprata come un qualsiasi oggetto) ma che divora tutto con perversa lucidità. Niente può fermare questa creatura fragile che nella sua tuta blu ricorda un crudele Peter Pan e vive in un’inquietante fattoria della campagna danese gestita dal crimine organizzato albanese che – tra le sue mura – nasconde un bordello. La tenutaria è una donna violenta che ingaggia Miu come porta fortuna nella speranza di riuscire a rimanere incinta. La protagonista infatti ha dei poteri sovrannaturali che molti vogliono sfruttare. Sin dall’inizio, NWR ci scaraventa in un universo distopico che striscia nelle viscere della capitale danese, un universo fatto di violenza e perversioni, illuminato solo dalle luci a neon rosse e blu (una passione del regista) che impregnano tutto fino alla saturazione.

Da questo universo distopico trapelano una grazia e un rigore estetico che ci riportano a serie culto degli anni Novanta come Twin Peaks e la sua Red Room (le cui tappezzerie continuano ad ossessionarci), ma anche a film emblematici come Suspiria di Dario Argento. La grazia narcotica dell’impassibile Miu, il suo fisico asciutto da ballerina classica associato a un taglio di capelli alla garçonne che gli conferiscono un’aria da mimo, infonde ai luoghi un non so che di prezioso trasformando l’orrore in astrazione.

Se di primo acchito tutti gli elementi sembrano riuniti per creare una serie di forte impatto in perfetto stile Kill Bill, ciò che divide la critica è il rifiuto di NWR di appoggiarsi sulla narrazione, come fanno invece la stragrande maggioranza delle serie, trasformandola in perno attorno al quale far evolvere i personaggi. Con i suoi audaci movimenti di camera: le sue vertiginose riprese dall’alto, i piani sequenza infiniti, l’immobilismo delle azioni e i dialoghi scarni e taglienti, così come la sovrastilizzazione di ogni piano (concepito come un quadro), il regista danese sfida tutte le regole invitandoci a lasciarci andare ad una lasciva deambulazione sensoriale. Non è allora più la linearità della narrazione a guidarci ma piuttosto l’incanto d’immagini crudeli e bellissime che si insinuano sotto pelle, come un veleno. Che lo si ami o lo si odi, Refn ha il coraggio di esplorare narrazioni diverse che nascono dal mezzo cinematografico non più utilizzato come semplice supporto ma come strumento per decostruire senza paura il concetto stesso di opera filmica.