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«Sono partita quando Alina aveva solo sei mesi»
L’angoscia delle braccianti romene e bulgare che lavorano in Italia, Germania e Spagna lasciando i figli a casa. Una maestra nel Paese di origine: «Ne ho conosciuti tanti. La mattina mi chiedevano di abbracciarli perché si sentivano soli»
Stefania Prandi
Sono trascorsi tre anni da quando Petra è partita per l’ultima volta. Lo strappo della lontananza le fa ancora tremare la voce. «Uno dei miei figli doveva essere operato a un’ernia inguinale grave. Ho chiesto un prestito di 600 euro per pagare le medicine e il trasporto dal paese dove viviamo a Iași, la città dell’ospedale. L’anestesista voleva altri 70 euro in nero, ma gli ho risposto che non sapevo dove trovarli». Per Petra non c’era altro modo di saldare il debito se non lasciare Zmeu, nella Moldavia rumena, dove abitava con i suoi nove figli, e diventare una bracciante in Italia. «Alina, la mia bambina più piccola, aveva soltanto 6 mesi. L’ho affidata ai fratelli più grandi. Ogni tanto una zia che vive qui vicino veniva a controllarli». Petra socchiude gli occhi, smette di parlare e inizia a piangere. Ha 47 anni ed è stata anche una muratrice in Romania, ma i soldi che guadagnava erano troppo pochi, 40 euro per ogni vano costruito. Un lavoro che richiedeva fino a una settimana di fatica.
«Sono arrivata con mio marito in un’azienda dove raccoglievo frutta e verdura per 10 ore al giorno, con una paga di 6 euro all’ora, mentre avrei dovuto guadagnarne 9. I miei “padroni” sapevano che avevo lasciato i miei figli da soli in Romania, ma non gli importava. A loro interessava che io fossi efficiente, nient’altro». Ogni due sere Petra chiamava a casa per avere notizie della sua bambina e degli altri figli. «Non avevo uno smartphone, non potevo permettermelo, sentivo la loro voce senza vederli». Così per tre anni, ogni estate.
Disturbi psichici e ricoveri
La vicenda di Petra non è un’eccezione. Le donne di origine comunitaria che lavorano nei campi e nelle serre italiane, come in quelle spagnole e tedesche, dove si coltivano la frutta e la verdura vendute in tutta Europa, vengono perlopiù da Romania e Bulgaria. In diversi casi devono separarsi dai figli e dalle figlie, che restano per mesi nei Paesi di origine con i parenti. La distanza è vissuta con dolore dalle madri. Può succedere che la sofferenza diventi così forte da costringerle a ritornare a casa prima del previsto, abbandonando il progetto migratorio.
Come racconta Petronela Nechita, primaria dell’ospedale psichiatrico di Iași, una parte delle pazienti che ha seguito nel corso degli anni erano braccianti agricole emigrate. Percorrendo i corridoi giallo pallido dell’istituto romeno si scorgono le stanze con due o tre letti dove dormono le degenti ricoverate. Qualche infermiera passa indaffarata con le medicine. Nel giardino, sulle panchine all’ombra degli abeti, siedono gruppetti di donne in vestaglia e pantofole. Il silenzio è interrotto da mormorii e lamenti. «Le operaie agricole con disturbi psicologici e psichiatrici vengono principalmente in ambulatorio. Soltanto nei casi più gravi devono essere assistite in ospedale». La cosiddetta «sindrome Italia», ossia la condizione di disagio dovuta all’aver delegato la maternità ad altri, è stata coniata per le badanti ma riguarda anche le braccianti. «In generale soffrono di insonnia e stress da isolamento. A causa dello scarso livello di istruzione partono prima ancora di apprendere la lingua e una volta sul posto faticano a creare dei legami. L’agricoltura è meno traumatica del badantaggio perché fanno avanti e indietro: vanno via per un po’ di mesi e poi riescono a rientrare a casa». Il compito di Petronela non è semplice: «Non esiste alcun tipo di protocollo: non possiamo ostacolare il loro viaggio, sono persone libere».
La scelta è obbligata dalla penuria di impieghi e dagli stipendi romeni troppo bassi, spiega Iurciuc Ilie, preside del plesso scolastico di Zmeu, con 430 alunni fra i 3 e i 14 anni. Il 30 per cento delle madri degli alunni lavora all’estero. Le rimesse delle emigrate hanno cambiato il paesino, nel corso del tempo: sono sorte nuove case costruite secondo i canoni occidentali e altre sono state ristrutturate. «Il distacco prolungato ha un impatto negativo sull’andamento scolastico. In media gli studenti affidati alle nonne hanno voti più bassi e rischiano l’abbandono scolastico. Sono più ribelli, tendono a non rispettare le regole e si intristiscono davanti alle madri degli altri».
La consolazione: alcol e droga
La situazione è simile in Bulgaria. Rosita Alexandrova è una maestra di 64 anni. Insegna a Gabrovnitsa, una scuola nella provincia di Montana. Si commuove pensando ai bambini che conosce. «Nel corso degli anni ho avuto molti alunni con le mamme lontane. La mattina, appena arrivati, mi chiedevano di abbracciarli perché si sentivano soli. Certe volte erano particolarmente tristi e mi domandavano di aiutarli a scrivere lettere e biglietti da spedire in Italia». In generale, la mancanza della mamma è difficile da sopportare. A volte, gli «orfani bianchi», quando arriva l’età dell’adolescenza, cercano consolazione nell’alcol o in altre sostanze psicotrope.
I salari sono una miseria
Teodora Dimotrova, un’altra insegnante nella scuola di Gabrovnitsa, riferisce che la maggior parte dei suoi studenti ha piena consapevolezza della situazione. «Sanno che le madri sono partite per guadagnare di più e per offrire loro un futuro migliore. Con i risparmi riescono a mandarli alle superiori e all’università, una possibilità che sarebbe preclusa se fossero rimaste qui». Secondo la sindacalista Maria Lazarova, abbandonare la Bulgaria è una scelta quasi obbligata: le fabbriche hanno chiuso dopo la fine del blocco sovietico, le opportunità di impiego rimaste sono poche e gli stipendi troppo bassi. Il sindacato ha un programma per informare chi vuole emigrare e consiglia di affidarsi alle agenzie locali evitando gli intermediari illegali e i caporali. «Siamo in un Paese a forte vocazione agricola ma i salari sono miseri e i bulgari preferiscono cercare fortuna all’estero. Perfino chi si laurea in agraria difficilmente decide di restare», spiega Bozhura Fidanska, ricercatrice dell’Istituto di Economia agricola di Sofia.
Iva ha 53 anni e parla italiano. Quando le sue due figlie erano quasi adolescenti ha deciso di partire col marito: «Avevamo bisogno di soldi per comprare i libri e per le altre spese. Ho affidato le ragazze a mia suocera». Iva all’inizio è finita nei campi italiani, dove è stata sottopagata e maltrattata. Considerando le stime sulla forza lavoro irregolare in agricoltura, sarebbero tra 51 e 57mila le lavoratrici sfruttate in Italia, quasi invisibili alle istituzioni, ai sindacati e alle organizzazioni della società civile. Appena ne ha avuto la possibilità, Iva ha abbandonato la campagna, diventando una badante.
Una diagnosi tardiva
«I primi anni – dice – è andata bene, poi mi sono ammalata. Ho avuto un cancro ma l’ho scoperto solamente una volta tornata in Bulgaria perché in Italia il medico non mi ha presa sul serio. Avevo male al braccio e un forte prurito alla mammella. Non passavano nonostante avessi cambiato reggiseno e facessi gli impacchi con la crema. Il dottore diceva che era colpa degli sforzi sul lavoro e non mi ha mai prescritto un’ecografia. Non mi ha trattata come un essere umano. Ero straniera, una donna dell’Est». La diagnosi tardiva ha condizionato per sempre Iva: le metastasi la costringono a terapie e ricoveri frequenti. Per riuscire a mantenersi, deve continuare ad occuparsi delle pulizie di un ufficio pubblico di Montana.