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La terra del futuro

«Il nostro futuro si giocherà in Africa», si legge sulla copertina di La speranza africana. La terra del futuro concupita, incompresa, sorprendente, l’ultimo saggio del nostro collaboratore Federico Rampini, in uscita il 19 settembre per Mondadori. «È il baricentro demografico del pianeta: lì si concentrerà la crescita della popolazione in questo secolo, mentre la denatalità avanza altrove. Un’altra sfida riguarda le materie prime, in particolare materiali strategici nella transizione verso un’economia sostenibile: dei minerali e metalli rari indispensabili per i pannelli solari o le auto elettriche vengono estratti in Africa».

Quel Continente immenso con diversità enormi – dice l’autore – viene descritto «come l’origine della “bomba migratoria” che si abbatterà su di noi. (…) come la vittima di tutti gli appetiti imperialisti e neocoloniali: quelli occidentali o la nuova invasione da parte della Cina. Fa notizia solo come luogo di sciagure e sofferenze (…)». Ma ora deve si impone una nuova narrazione, contro gli stereotipi. L’Africa «non è solo sofferenza e fuga, come dimostra la sua straordinaria vitalità culturale (…). La diaspora brilla per le eccellenze (…). Esiste un protagonismo africano». Rampini – attraverso la struttura del reportage – ce lo racconta.


Dove la luce è un bene raro

In Sudafrica i continui blackout costringono chi non è ricco a vivere spesso al buio, mentre molti dirigenti localisono esasperati dalle incoerenze dell’Occidente che predica l’ambientalismo senza però praticarlo
/ 11/09/2023
Federico Rampini

È sera. Sono arrivato da pochi minuti al ristorante di Città del Capo, in Sudafrica, dove mi attende il primo degli interlocutori che devo intervistare. La luce si spegne, la sala piomba nell’oscurità. Più tardi, sono appena entrato nella mia camera d’albergo a Johannesburg e accade la stessa cosa: buio totale. Mi preoccupo di più quando a spegnersi di colpo sono i semafori e ogni illuminazione stradale, e un incrocio della maggiore metropoli si trasforma in un complicato balletto di auto in cerca di una via di fuga. Ma questi disagi sono davvero poca cosa, in confronto a quel che soffre la maggior parte della popolazione. In albergo o al ristorante, almeno nei luoghi che frequento io – perché li frequenta la nomenclatura black che dirige il Paese – di solito l’oscurità dura poco. Scatta il piano B, subentrano i generatori autonomi, i gruppi elettrogeni alimentati a diesel. La luce torna. Ad alto prezzo, sia chiaro. Per ogni operatore economico sudafricano che deve fornirsi di un generatore autonomo i costi salgono, far quadrare i conti diventa più difficile. Per non parlare della competitività nazionale: in un mondo dove altri Paesi hanno un’energia regolare e affidabile, chi non ce l’ha retrocede. In quanto alle conseguenze per l’ambiente: i motori diesel dei generatori privati che bruciano gasolio sono molto inquinanti.

Sta ben peggio la maggioranza della popolazione, chi non ha i mezzi per pagarsi il piano B cioè i generatori privati di elettricità. La paura che ho avuto io quando il buio è piombato sull’ingorgo stradale notturno, immaginiamola moltiplicata per cento se abiti in una township (quartiere-ghetto) dove spadroneggiano le gang. L’illuminazione pubblica funzionante è uno dei primi ingredienti per la prevenzione della violenza, o quantomeno per cercare di difendersi dalle aggressioni: in Sudafrica è un bene raro. Un altro danno quando manca la luce lo subiscono tutti i ragazzi e le ragazze: come li fai i compiti a casa, quando studi sui libri di testo, se dopo il tramonto ti trovi nell’oscurità?

Conosco bene un altro Paese dove i blackout elettrici colpiscono con spietata frequenza: è l’India. Anche in India esistono due Nazioni. I ricchi abitano in un mondo protetto dai generatori autonomi, i gruppi elettrogeni che scattano appena manca la corrente dalla rete principale. Gli altri devono subire lunghe interruzioni dell’energia. C’è però una differenza fondamentale. L’India ha un sistema energetico che rincorre la crescita parallela della popolazione più numerosa del pianeta (nel 2023 ha sorpassato la Cina, sfiora il miliardo e mezzo di abitanti) e dell’economia (nel 2023 il Pil indiano è cresciuto più di quello cinese). Il boom dei consumi energetici indiani non è stato compensato, finora, da un adeguato potenziamento nella capacità di generare energia. E comunque l’India partiva con un settore energetico arretrato. La carenza di elettricità è un handicap anche per l’India, però ha delle spiegazioni almeno in parte rassicuranti, legate alla difficoltà di star dietro al pachiderma che corre. La crisi elettrica sudafricana non ha quelle attenuanti. Il Sudafrica trent’anni fa aveva un’industria energetica moderna, tanto da esportare corrente nei Paesi vicini. Ai tempi di Nelson Mandela la utility elettrica nazionale, Eskom, era un fiore all’occhiello per il Paese. Dopo di allora il Sudafrica non ha avuto un boom economico neppure lontanamente paragonabile a quello indiano. Il collasso della utility non è causato da una forsennata crescita dei consumi; all’apparenza è misterioso. Appena scavi in cerca di spiegazioni, trovi delle cause turpi. È anche un’opportunità per esaminare delle sfide planetarie – cambiamento climatico, transizione energetica – nell’ottica di una Nazione rappresentativa del Grande sud globale.

«Questo è uno dei fallimenti dello Stato – mi dice David Makhura, ex governatore del Gauteng (la provincia di Johannesburg) che oggi dirige la formazione quadri dell’African national congress – perché trent’anni fa quando andammo al potere abbiamo lanciato l’elettrificazione di tutti i villaggi, ma non abbiamo investito nel futuro del Paese, non abbiamo costruito nuova capacità di produzione. La crisi elettrica è uno dei macroscopici insuccessi del mio partito. Ci siamo preoccupati solo dell’equità, cioè di dare a tutti l’accesso alla rete, come se fosse irrilevante produrla a monte, l’elettricità. Non abbiamo visto arrivare la grande urbanizzazione che ha ingigantito i consumi nelle città e nelle loro periferie». Dopo questa autocritica, il leader politico si lancia in un’arringa contro il nostro ambientalismo. «Non possiamo pensare il futuro solo in termini di fonti rinnovabili. Voi venite a dirci: puntate tutto sulle energie pulite. È impossibile. Significa andare al collasso finale del nostro sistema. L’Occidente non può metterci di fronte a questo tipo di diktat: elettricità pulita o niente».

A che cosa si riferiscono i sudafricani quando parlano di «diktat» dell’Occidente? Al fatto che l’ambientalismo dottrinario si è diffuso a tal punto da diventare il credo ufficiale dei grandi prestatori: governi Usa e Ue, istituzioni internazionali come la Banca mondiale. Perfino a Wall Street la grande finanza americana ha abbracciato il nuovo pensiero unico Esg (iniziali di Environmental social and governance) per cui spesso i banchieri si rifiutano di finanziare progetti d’investimento che non siano considerati «verdi». L’accesso ai finanziamenti occidentali può essere compromesso, se un Paese emergente non obbedisce ai nuovi criteri. Il cui arbitrio è assoluto. Agli occhi degli africani colti, che sanno guardare oltre le apparenze e la propaganda, la nostra infatuazione per l’auto elettrica è discutibile: sanno di quali materiali è composta una batteria elettrica, visto che in parte vengono estratti dal loro sottosuolo, con processi che comportano abbondanti emissioni di CO2.

Molti dirigenti sudafricani che ascolto nel corso del mio viaggio sono esasperati dalle incoerenze di Paesi molto più ricchi del loro, che predicano l’ambientalismo senza praticarlo. Qui ha fatto scalpore il dietrofront della Svezia nel 2023: il Governo di Stoccolma ha dichiarato che un sistema energetico basato al 100% sulle rinnovabili non è realistico. La Germania, dove i Verdi sono al Governo, quando è scoppiata la guerra in Ucraina e sono state varate le sanzioni contro la Russia, ha ricominciato a comprare carbone per le sue centrali proprio qui in Sudafrica. Anche sul tema del cambiamento climatico, purtroppo, per il Sudafrica il modello non siamo noi, è Pechino. «I cinesi – dice Makhura – investono nelle energie rinnovabili in base ai loro tempi e alla loro agenda di priorità. I cinesi sono pragmatici. Non ci fanno discorsi stupidi sulla necessità di fare immediatamente scelte drastiche, non ci esortano a ripudiare di colpo l’energia meno costosa. I cinesi sono diventati leader mondiali nelle energie rinnovabili, ma continuano ad aprire anche nuove centrali a carbone, proprio ora, mentre noi due stiamo parlando. Le nostre luci devono essere accese. Non chiedete proprio a noi di incamminarci verso una transizione al buio, verso un vostro astratto ideale».

Per leggere la prima puntata del reportage sul Sudafrica si rimanda all’edizione del 28 agosto scorso: Quei diamanti neri che depredano il Sudafrica.