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Per non cedere alla disperazione e all’odio
Israele è in fiamme, la società sempre più divisa, neppure il lutto funge più da collante ma c’è chi non perde la speranza
Sarah Parenzo
Ancora nessuno sviluppo significativo nelle trattative per un accordo di cessate il fuoco a Gaza in cambio della restituzione dei 59 ostaggi israeliani nelle mani di Hamas. Benjamin Netanyahu viene accusato dall’opinione pubblica di protrarre la guerra unicamente per scopi personali, messo alle strette dai processi a suo carico, dallo scandalo del Qatargate e dalle gravi accuse rivoltegli da Ronen Bar, il capo uscente dello Shin Bet. Nelle scorse settimane Bar ha rilasciato alla Corte Suprema dichiarazioni a dir poco inquietanti sulla condotta illegale del primo ministro a danno della società civile e di soggetti politici da lui percepiti come scomodi. Oltre all’intelligence e al sistema giudiziario, perennemente minacciati dalla riforma promossa dalla coalizione, la crisi investe anche l’esercito che manifesta segni di debolezza, dal momento che i riservisti esausti scarseggiano e le diserzioni si moltiplicano, non più solo tra la sinistra radicale e gli ebrei ultraortodossi. In risposta alla sofferenza e alla preoccupazione per il futuro, che permeano anche lo spazio pubblico, continuano senza sosta le massicce proteste contro il Governo e a sostegno delle famiglie degli ostaggi.
Già l’anno scorso la giornata di commemorazione dei caduti si era tenuta all’ombra di un conflitto, se si può definite tale, del quale non si intravede ancora la fine. Ma oggi, mentre a Gaza continua a consumarsi una tragedia di proporzioni inimmaginabili, è evidente che all’interno di Israele è in corso un’altra guerra che si va inasprendo giorno dopo giorno con risvolti sempre più violenti e allarmanti. Attualmente incapace di valorizzare il proprio pluralismo in modo sufficientemente armonioso, la società civile rischia di frantumarsi. Non si tratta infatti solo di frizioni tra destra e sinistra, tra popolo ed istituzioni, tra laici e religiosi, o tra «tribù», termine spesso utilizzato in riferimento alle diverse componenti della società israeliana, né si può liquidare la questione come risultato della salita al potere di estremisti fanatici. Eppure, se i nodi sono molteplici, le fazioni sono molto meno eterogenee di quanto potrebbe sembrare in apparenza.
Fatto salvo per pochi illuminati, ad accomunare gli ebrei israeliani, paralizzando ogni possibile evoluzione, persistono la narrazione del popolo perseguitato ed eterna vittima e la rimozione dell’occupazione. In mancanza di un’onesta presa di responsabilità da parte di tutti i gruppi, anche lo sforzo immane e ammirevole delle proteste rischia di tradursi in sterili slogan che si limitano alla demonizzazione di Netanyahu, il quale sopravvive forse anche a fronte dell’oggettiva assenza di alternative carismatiche. In questo clima la pace e le iniziative congiunte tra israeliani e palestinesi continuano ad essere osteggiate e impopolari, ma fortunatamente c’è chi non si arrende. Così, lo scorso martedì sera si è svolta a porte chiuse la ventesima edizione della rivoluzionaria commemorazione congiunta, organizzata da Combatants for peace e dal Parents circle – Families forum. La cerimonia, che riunisce israeliani e palestinesi che hanno perso i propri cari a causa del conflitto, rappresenta un forte appello a porre fine alla violenza. All’evento, trasmesso in diretta streaming in oltre 160 località in Israele, Cisgiordania, Europa e Stati Uniti, sono intervenuti alcuni coraggiosi protagonisti involontari degli attacchi del 7 ottobre e della guerra in corso a Gaza che hanno condiviso le loro esperienze di perdita e trauma portando delle testimonianze toccanti in nome della pace e della riconciliazione. Tra loro Liel Fishbein, sopravvissuto al massacro del kibbutz Be’eri, che ha perso la sorella Tchelet, e Liat Atzili, sopravvissuta al massacro di Nir Oz e alla prigionia di Hamas e vedova di Aviv, assassinato il 7 ottobre. Parlando della sua ricerca di un significato Atzili ha affermato: «La libertà è un fardello pesante, ma è l’unica forza in grado di portare la pace tra le persone e costruire una società giusta e morale».
Una palestinese di Gaza, che ha chiesto di restare anonima e ha perso la madre sotto il fuoco dei cecchini, ha spiegato perché ha scelto la via della pace nonostante il dolore: «Le nostre vite non sono solo storie di dolore, ma anche di resilienza». Musa Khatawi, che si è unito al Parents circle – Families forum dopo aver perso alcuni membri della sua famiglia nei recenti attacchi a Gaza, ha detto: «La nostra lotta non è solo per la giustizia; è per il diritto a vivere con dignità, senza paura, e per porre fine a questo ciclo di violenza. Ora è il momento di insistere per porre fine all’occupazione e impedire ulteriori spargimenti di sangue». All’uscita dall’auditorium di Giaffa i volti degli spettatori erano ancora segnati dalle lacrime di commozione, quando si è sparsa la notizia che alla proiezione della cerimonia in una sinagoga riformata della tranquilla cittadina di Raanana avevano fatto irruzione dei fanatici di estrema destra aggredendo verbalmente e fisicamente i partecipanti terrorizzati. Persino in quello che doveva essere un momento di unità e lutto nazionale, non si è persa l’occasione di prevaricare e silenziare le voci che si levano contro l’ingiustizia e la strumentalizzazione del dolore, voci che ritengono che libertà, dignità e uguaglianza per tutti siano gli unici fondamenti per una vera sicurezza e una pace duratura. Al mattino seguente sono scoppiati incendi di proporzioni drammatiche nei boschi intorno a Gerusalemme. Molte comunità sono state evacuate, le strade chiuse e Israele ha dichiarato l’emergenza nazionale chiedendo rinforzi ai Paesi vicini. Annullati anche i festeggiamenti per il Giorno dell’indipendenza, mentre Hamas ha incitato i palestinesi a cogliere l’occasione per bruciare le colonie ebraiche. In una simile realtà, permeata di morte e violenza, con le debite asimmetrie è facile per ambo le parti cedere alla disperazione e all’odio, ma la perdita può alimentare anche la trasformazione personale e sociale. Chi si aggrappa alla speranza e vuole collaborare per un futuro diverso si è già dato un nuovo appuntamento, il 7 e l’8 maggio a Gerusalemme e in streaming per il summit The people’s peace, il più grande evento contro la guerra organizzato dopo il 7 ottobre.