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«Le mie ferite non si rimarginano mai»
Ibrahima Lo – il giovane che ha ispirato il film di Matteo Garrone Io capitano – ricorda il viaggio infernaleche lo ha portato dal Senegal in Italia. Le prigioni in Libia, i morti nel deserto o in mare e il dolore di Farah...
Angela Nocioni
Di recente un ragazzino migrante di 14 anni è stato trovato senza vita in un riale, a Balerna. Mancava all’appello dal Centro federale d’asilo da alcuni giorni. Il caso ha scosso non poco l’opinione pubblica e riportato al centro del dibattito la questione dei minori non accompagnati che arrivano nel nostro Paese e non solo. Anche per questo, in onore di questa vita spezzata, vi proponiamo il racconto di un altro giovane migrante, che è stato solo un po’ più «fortunato». «Sono del Senegal, sono arrivato da solo per mare in Sicilia che avevo 16 anni. Ho dovuto riprendere il mio percorso di studi in Italia, a casa mia non studiavo più. Ora sono uno scrittore. Ho scritto due libri, La mia voce e Pane e acqua». Ibrahima Lo ha 24 anni, è dal suo libro Pane e acqua che il regista Matteo Garrone ha tratto ispirazione per il film Io capitano. Ibrahima è mingherlino e sorridente. Ci racconta il suo viaggio dal Senegal all’Italia: «Sono partito che ero piccolo e i motivi sono questi: quando avevo 10 anni mia madre è morta in un incidente stradale, perché non c’erano i soccorsi, quando ne avevo 15 anni è morto mio padre».
«Lui aveva il diabete, era povero, non poteva curarsi. Lavorava per sopravvivere. Quando è andato in ospedale i medici gli hanno detto che con questa malattia non puoi mangiare certi cibi, non puoi mangiare tanto riso, tanto zucchero, perché non vanno d’accordo con il diabete. Quando mio padre è tornato dall’ospedale ha detto che non poteva smettere di mangiare quei cibi perché soldi per comprare altro non c’erano. Io continuavo a sopravvivere ma lui è morto. Quando ero piccolo sognavo di diventare giornalista, per il fatto che sono nato in una famiglia povera, ho visto l’ingiustizia dentro casa: mia madre è morta per la mancanza di servizi di pronto soccorso in un Paese che ha tanto oro e petrolio; mio padre è morto perché non poteva curarsi. Il sistema sanitario nel Paese è debole. Queste ingiustizie mi hanno invogliato a diventare giornalista, per dare voce a quelli che non hanno voce e per combattere quello che non va. Mio papà mi ha detto: sai che è una strada lunga e devi camminare tanto sopra alle spine? E quando è morto ho capito perché parlava delle spine».
Come detto, il nostro interlocutore ha dovuto lasciare presto la scuola: «Per un anno vedevo i miei amici che andavano a scuola e io non potevo; lì rischiavo di finire in strada e fare il delinquente o un lavoro con qualcuno che mi sfruttava. Un giorno un mio amico, figlio di un’amica di mia madre, mi ha detto: “Ibra, tu non puoi continuare a fare questa vita, ci sono persone che sono andate in Europa e stanno riuscendo a vivere, io ti aiuto se vuoi andare”. Lui sta bene economicamente perché suo padre ha un negozio dove vendono i cellulari; quel giorno mi ha offerto un biglietto per andare in Mali e in Niger, mi ha detto che la strada era da fare prima in autobus, poi in pick-up e poi in gommone per l’Italia. Per me andava bene, ma non potevo dirlo a mia zia perché non mi avrebbe lasciato partire. E lui mi ha detto: “Inventiamo qualcosa per la zia, diciamo che andiamo in vacanza”. Lui è rimasto in Senegal e io sono partito da solo». Ha attraversato i confini di Senegal, Mali, Niger ed è giunto in Libia.
«Prima di arrivare lì c’è il deserto, il deserto del Sahara non lo raccontano mai, lì è un altro cimitero con tanti morti, persone che urlano i nomi dei loro genitori e dei loro dei, poi muoiono. L’ottavo giorno l’acqua era finita. Giravo i miei occhi e vedevo solo deserto, chiedevo ai miei compagni “come facciamo a trovare acqua?”, ci hanno detto “aspettate, aspettate”. Abbiamo aspettato una giornata intera e faceva caldissimo, io facevo la mia preghiera perché pensavo che non sarei tornato a abbracciare mia zia o le tombe dei miei genitori, ho pensato che la mia vita finiva lì. Quando poi abbiamo visto che stavamo arrivando in Libia dicevamo tra noi “quello è il nostro paradiso”, lì potremo mangiare e bere acqua dopo 9 giorni che mangiavamo solo poco cuscus e latte in polvere. Invece ci hanno fatti entrare in una casa: muro lungo, camera piccola. Eravamo 45 persone, ci hanno messo lì dentro e dicevano una frase che suona più o meno così “onfluss onfluss?”. Vuol dire “dove hai i soldi?”. Non capivo perché dovevamo pagare: eravamo prigionieri. Poi ci hanno portato in un’altra prigione dentro il portabagagli di una Mercedes, ci spingevano dentro per avere più spazio. Quando sono sceso i miei piedi non hanno retto e sono caduto ed è lì che ho capito: ora sono all’inferno. In quella prigione la vita era un pezzo di pane e un bicchiere d’acqua al giorno; i libici sono venuti un giorno e hanno detto: “Voi siete stati venduti e per uscire dovete pagare soldi”. Noi abbiamo chiesto: “Come possiamo pagare così?”. Loro hanno detto che dovevamo dare un numero da chiamare per far mandare a loro soldi; io avevo il numero del mio amico Mohammed nelle mutande e gliel’ho dato. C’erano due nigeriani e un gambiano che non avevano il numero di nessuno. Li hanno messi davanti a noi e li hanno picchiati, poi gli hanno sparato davanti ai nostri occhi. Quindi hanno cominciato a picchiare noi. Cercavo di proteggermi la testa, dopo che sono andati via ho guardato mio corpo e c’era tanto sangue dappertutto».
Nelle prigioni Ibrahima Lo ha vissuto cinque mesi. Un mese il viaggio per arrivare in Libia e cinque mesi in gabbia. «Poi mi hanno messo su una piccola imbarcazione, sono partito, e ho visto tanta gente che moriva in mare. Mi ricordo di persone che erano salite e piangevano forte. In francese ho chiesto a un uomo perché piangeva e lui mi ha risposto: “Ho perso mia moglie e mia figlia. Quando il gommone si è rovesciato ho guardato a sinistra, c’era mia moglie, a destra c’era la mia bambina, poi tutte e due sono finite in acqua e sono sparite in fretta; mi sono salvato da solo”. Quella ferita dentro il suo cuore non potrà mai guarire. Io che sono un giovane e sono passati degli anni, ora ne ho 24, ogni volta che dormo mi tornano le immagini che ho vissuto in quel periodo. Ancora devo lottare contro questa malattia del dolore che ho nel cuore e nella testa. Le mie ferite non si rimarginano mai perché ogni giorno, quando faccio la doccia, tocco il mio corpo che mi fa ricordare l’inferno subito. Le persone uccise, i bambini morti davanti ai miei occhi, e Farah, una donna che violentavano tutti i giorni dentro il carcere. Lei me lo raccontava perché io ero il più piccolo e lei aveva fiducia in me».