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Il «piano»: cacciare i palestinesi da Gaza
Settimana scorsa Donald Trump ha reso pubblico il suo «piano» per Gaza, scioccando persino alti dirigenti della Casa Bianca e del suo Governo, stando al «New York Times». Gli Usa dovrebbero prendere il controllo della Striscia e i circa due milioni di persone palestinesi che ci vivono dovrebbero andarsene. «I palestinesi – ha scritto il presidente su Truth – sarebbero reinsediati in comunità molto più sicure e belle, con case nuove e moderne. Avrebbero la possibilità di essere felici, sicuri e liberi». «È un’idea straordinaria e penso che dovrebbe essere davvero perseguita, esaminata e realizzata», ha commentato dal canto suo il premier israeliano Benjamin Netanyahu.
Mentre molti Paesi si sono detti indignati dalle dichiarazioni di Trump. L’Ue ha affermato: «L’Unione europea rimane pienamente impegnata nella soluzione dei due Stati, che riteniamo sia l’unica via per una pace a lungo termine sia per gli israeliani che per i palestinesi». «Gaza è parte integrante di un futuro Stato palestinese, è una parte essenziale della futura politica» di tale Stato e «non ci dovrebbero essere ulteriori spostamenti forzati di palestinesi». / Red.
Gran Bretagna isolata e in affanno
Cinque anni dopo la Brexit l’economia del Paese è in ginocchio e il premier Keir Starmer cerca di barcamenarsi tra un Europa pigra e il volubilissimo Donald Trump
Cristina Marconi
Un giorno questo dolore ti sarà utile recitava il titolo di un bellissimo libro dello scrittore statunitense Peter Cameron, e lo stesso magari si sperava di poter dire un giorno della Brexit. Solo che, dopo cinque anni di dolorosa operatività, l’uscita dall’Unione europea ancora non si è dimostrata particolarmente utile. Lo dicono i dati: 3 miliardi di sterline di perdite per i controlli all’export alimentare, piccole e medie imprese in ginocchio, burocrazia pervasiva, aumento dell’immigrazione, servizio sanitario nazionale allo sbando senza il personale europeo e università alle prese con un crollo degli studenti, che davanti alla prospettiva di pagare 30mila sterline di tasse si sono rivolti altrove e sono stati sostituiti da giovani asiatici interessati quasi solo alle materie scientifiche e al business. L’economia non ne ha tratto granché, anzi, la crescita è esangue e il Governo di Keir Starmer (nella foto), che ha vinto le elezioni con una vaga piattaforma di sinistra senza chiarire esattamente che Paese avesse in mente, ha dovuto fare una brusca inversione a U all’insegna della deregulation e dei grandi progetti controversi e inquinanti come la terza pista di Heathrow. Come controversa, ma al contrario del resto potenzialmente utilissima, si è rivelata la sparata di Donald Trump, che nelle ultime settimane usa toni sempre più flautati per parlare del premier britannico: nei giorni in cui è stato annunciato un ritorno dei negoziati con Bruxelles per smussare alcuni aspetti dell’uscita dalla Ue, il presidente americano ha detto che con Londra e solo con Londra «si può trovare una soluzione» sui dazi, anche perché Starmer «è stato molto carino», al telefono e di persona: «Vedremo se possiamo o no pareggiare la nostra bilancia».
Diventare amici del bullo che fa dichiarazioni inaccettabili su qualunque argomento, a partire da Gaza (leggi box a lato), o schierarsi con i placidi europei, sapendo che una vicinanza può rinfocolare polemiche interne con Reform fortissimo nei sondaggi, che comunque loro vorranno un po’ vendicarsi e che il loro potere di aiutare l’economia britannica a riprendersi ha effetti meno immediati? La posizione del battitore libero in cui si trova Starmer è piena di incognite e rischia di fare arrabbiare tutti, a partire dal volubilissimo Trump, che si diverte a fare il poliziotto buono lasciando che sia il suo collaboratore Elon Musk a prenderlo di mira con attacchi violenti e personali su X e di un tentativo per nulla mascherato di sostituirlo a Downing Street con qualcuno di suo gradimento. Con una situazione economica come quella del Regno Unito e il rischio che la guerra commerciale indebolisca la domanda di prodotti britannici, il premier deve essere molto cauto e lo sa, e infatti ha dichiarato la sua volontà di restare neutro. «Entrambe le relazioni sono molto importanti e per questo non scegliamo tra le due», ha detto salomonico al termine di un incontro a Bruxelles, ben sapendo che questo equilibrio non potrà durare a lungo.
L’ultimo, o forse penultimo, progressista in giro sulla scena occidentale è in affanno: la sua cancelliera Rachel Reeves, prima donna al Treasury ma anche comunicatrice austera e incline ai passi falsi – il suo libro sulle grandi donne dell’economia risultò copiato malamente da tante fonti, e pazienza che la colpa fosse dei suoi assistenti, il nome sulla copertina era suo – ha esordito a colpi di aumenti fiscali in particolare sul costo del lavoro e regole «d’acciaio» sulla responsabilità di bilancio. Ora, dopo pochi mesi e molti posti di lavoro perduti (anche su di lei erano circolate voci di sostituzione), ha finalmente cercato di infondere un po’ di ottimismo nel sistema-Paese, rispolverando un progetto importante come la creazione della risposta piovosa e fredda alla Silicon Valley con un rafforzamento delle infrastrutture nella zona del cosiddetto corridoio Oxford-Cambridge e altre iniziative in grado di generare circa 78 miliardi di sterline all’anno già nel 2035. Attualmente per percorrere la distanza che separa le due città universitarie ci vogliono due ore abbondanti nel migliore dei casi e in treno bisogna passare da Londra: Reeves vorrebbe strade migliori, una linea ferroviaria e delle cisterne d’acqua per servire le nuove case da costruire nella zona, in modo da attrarre nuovi talenti anche dall’estero e far scendere i prezzi altissimi dei due poli di quella che i britannici già chiamano Oxbridge. Un’idea visionaria, non nuovissima, ma sulla quale sognare per il futuro.
Poi a Davos ha fatto marcia indietro sull’abolizione del regime speciale per i milionari e i miliardari che vivono nel Regno Unito e che per tre secoli hanno potuto tenere la residenza fiscale all’estero, pagando le tasse solo sulle entrate generate nel Paese. Visto che stavano scappando tutti, sottraendo gettito alle casse dello Stato, ha annunciato che il periodo di transizione verrà allungato. E poi, a fine gennaio, ha illustrato tutta una serie di grandi opere, a partire dalla terza pista di Heathrow, di cui si discute da anni e che comunque non sarà pronta prima di un decennio, per cercare di attirare investimenti. Il Governo è in serie difficoltà, e Starmer paradossalmente ha ottenuto plausi solo da Donald Trump: il premier laburista è giù nei sondaggi – non piace al 66% degli elettori, secondo YouGov – e gli indicatori economici sono un disastro: il Fondo monetario prevede un Pil al +0,9% per il 2024 e al +1,6% per il 2025, la disoccupazione in aumento e la fiducia delle imprese in calo. Su questo, senz’altro, pesa anche l’onda lunga della Brexit, votata nel 2016 ma attuata solo il 31 gennaio del 2020: al di là della questione ideologica, di quel «take back control» che al momento sa solo di solitudine, confusione e mancanza di indirizzo, il fatto che Starmer abbia festeggiato l’anniversario andando a Bruxelles a chiedere di rivedere alcuni punti – difesa, sicurezza, standard alimentari, clima, per citarne alcuni – la dice lunga sull’efficacia del divorzio. Il 58% dei britannici voterebbe per tornare nella Ue, pensa che sia stato un errore uscire, ma nessuno vuole tornare a parlarne, il dibattito è stato troppo tossico, bisogna guardare avanti e cercare di contenere gli eccessi con «spietato pragmatismo», come dice Starmer. Non tornare a quel dolore, ma cercare attivamente qualcosa che si riveli finalmente utile.