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Migranti, cosa cambia davvero con Trump

Il neo presidente americano mostra i muscoli, incassa una vittoria-lampo contro la Colombia e promette di non fermarsi. In molti si indignano ma si tratta di decisioni in rottura totale con il passato?
/ 03/02/2025
Federico Rampini

Donald Trump ha già incassato una vittoria-lampo: contro la Colombia. Facile, si dirà. Ricordo cos’è successo. Di fronte alle immagini di migranti illegali incatenati, il presidente della Colombia ha annunciato che avrebbe impedito il loro rimpatrio, per protesta contro l’abuso dei loro diritti umani. Trump ha risposto minacciando dazi del 25%. La Colombia esporta petrolio, caffè, fiori freschi e gli Stati Uniti sono il suo principale cliente. La crisi è rientrata subito, il leader colombiano ha offerto addirittura il suo aereo presidenziale per il rimpatrio dei migranti. Lezione numero uno: non minacciate Trump se non siete sicuri che i rapporti di forze sono in vostro favore. Seconda lezione: i rapporti di forze non sono quasi mai in vostro favore. Messico, Canada e tanti altri hanno preso nota. Terza lezione: a volte Trump usa i dazi solo come uno strumento per ottenere altre cose, e spesso le ottiene. Tanto più che il resto del mondo ha quasi sempre praticato dazi molto superiori a quelli americani (la Cina è l’esempio estremo di un Paese che si proclama a favore delle frontiere aperte e fa l’esatto contrario), sicché la guerra protezionista è asimmetrica: l’America può infliggere danni molto superiori a quelli che subirebbe dalle ritorsioni.

La vicenda colombiana è anche indicativa del modo in cui stiamo affrontando la politica migratoria di Trump. A volte l’indignazione esplode in automatico, con questo presidente. Le catene ai migranti, per esempio, sono uno spettacolo orribile ma non nuovo: nei tribunali Usa è normale vederle usate per imputati a rischio di fuga, che siano stranieri o cittadini statunitensi. Non le ha inventate Trump, le catene. Gli attribuiremo anche l’esistenza della pena di morte? Come cittadino americano di origine italiana, impregnato di cultura europea, io sono contrario alla pena di morte. Però in America esiste da sempre e i democratici quando erano al potere non hanno mai cercato di abolirla (peraltro esisteva ancora in Francia fino a Mitterrand, 1981). Per valutare la portata del cambiamento in corso, è bene non affidarsi né alla propaganda trumpiana né a quella dell’opposizione. In America è iniziata una vera svolta sulla politica dell’immigrazione, in rottura totale con il passato? Trump vuole dare questa impressione. Sarebbe d’altronde un modo per mantenere le promesse fatte in campagna elettorale; l’immigrazione è uno dei temi che gli hanno portato crescenti consensi tra le classi lavoratrici e le stesse minoranze etniche.

Ma le novità in certi casi sono meno dirompenti di quanto sembri. Su espulsioni e rimpatri, o sull’uso dei militari alla frontiera, ci sono precedenti importanti nelle Amministrazioni democratiche. Per adesso l’unica rottura vera riguarda l’annunciata revoca dello «ius soli», la cittadinanza automatica per chiunque nasca sul suolo degli Stati Uniti. Questa è anche la novità che avrà più ostacoli per realizzarsi. È già stata bloccata dalla magistratura per sospetto di incostituzionalità. Sono gli stessi giornali di opposizione, «New York Times» e «Washington Post», a riconoscere che esistono elementi di continuità fra Trump e i leader democratici su alcuni aspetti delle politiche migratorie. Si prendano le espulsioni di migranti illegali, ovverosia rimpatri concordati con i loro Paesi di provenienza (così va tradotto il termine «deportations», non si tratta di «deportazioni» nel senso crudele che questa parola ha in italiano). Il «New York Times» ricorda che Biden ne realizzò ben quattro milioni durante i suoi quattro anni di presidenza. Cioè più del doppio delle espulsioni-rimpatri durante la prima Amministrazione Trump (gennaio 2017-gennaio 2021). Anche sotto la seconda Amministrazione Obama milioni di clandestini erano stati espulsi.

In ogni caso, oggi Trump vuole superare i rimpatri effettuati da Biden. Se fa sul serio, ci sarà un salto dimensionale. Ma non una svolta sul terreno dei principi, perché le procedure di espulsione-rimpatrio sono uno strumento usato regolarmente, da molto tempo e da presidenti di diverso colore politico. Lo stesso dicasi sul dispiegamento di militari al confine. Il «Washington Post» ricorda che se Trump invia 1500 soldati lungo la frontiera col Messico, questi vanno ad aggiungersi ai 2500 già schierati da Biden. I numeri con Trump dovrebbero salire ben oltre, si parla di arrivare fino a diecimila soldati: se è vero l’aumento sarà sostanziale. Non si tratta però di un’innovazione sui principi. L’uso delle forze armate in funzione di supporto logistico per le operazioni della polizia di frontiera è antico, consolidato. Peraltro le operazioni di espulsione restano di competenza dei corpi di polizia ad hoc, in quanto i militari non hanno né la formazione né i poteri di polizia giudiziaria che sono richiesti. Il loro dispiegamento non è uno strappo alla Costituzione, non più di quanto lo sia l’uso di militari in Europa in compiti di anti-terrorismo, per esempio a difesa di ambasciate straniere o aeroporti.

Né si può dire che Trump stia abusando dei suoi poteri quando pretende che le polizie locali collaborino con quelle federali nell’applicare le leggi sull’immigrazione. Qui si entra certo in un terreno delicato, i rapporti tra potere centrale e Stati Usa, in un sistema segnato da un federalismo spinto. Resta un’anomalia quella per cui ci sono delle leggi nazionali varate dal Congresso, poi disapplicate a livello locale nelle «città-santuario». Accade regolarmente che dei criminali condannati per reati violenti, qualora siano immigrati illegali, non vengano consegnati dalle polizie locali alle autorità federali per l’espulsione. La dis-applicazione delle leggi federali avveniva anche quando alla Casa Bianca c’era un presidente democratico. Di tutti gli annunci e i decreti firmati da Trump sulla migrazione, l’unico che si può considerare come un vero strappo, come detto, è la revoca dello «ius soli». Il diritto ad essere cittadini degli Stati Uniti se si nasce nel Paese sta scritto nella Costituzione, nel suo 14esimo emendamento. Fu approvato alla fine dell’Ottocento in un contesto storico molto diverso: sanciva la piena cittadinanza degli afroamericani dopo l’abolizione dello schiavismo. Non nacque quindi come un provvedimento mirato agli immigrati; però fu applicato da subito anche ai figli di stranieri. È dubbio che una norma costituzionale possa essere cancellata da un decreto presidenziale. Infatti una lunga schiera di Stati hanno già avviato un ricorso legale.

L’antefatto, nel caso dello «ius soli», è la polemica degli ultimi anni sui cosiddetti «anchor-baby», cioè i neonati usati per «gettare l’ancora» nel Paese (immagine metaforica). Da tempo la destra denuncia i casi di madri che aggirano nei fatti le leggi sull’immigrazione e sulla cittadinanza, venendo a partorire sul territorio Usa: i loro figli, una volta maggiorenni, possono avviare la pratica della regolarizzazione per estendere la cittadinanza agli altri familiari (non è né automatico né veloce, però in genere il risultato è positivo). Trump fa affidamento anche sull’effetto-annuncio: le sue politiche possono ridurre gli incentivi alla partenza, perché descrivono urbi et orbi un’America molto meno accogliente. Tanto più se i Paesi limitrofi come Messico e Canada per accattivarsi Trump provvedono a ostacolare il transito.