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Los Angeles, da dove ricominciare?

Margherita Amirkanian ci racconta l’inferno di Pacific Palisades e dintorni: «Azioni di prevenzione poco efficaci»
/ 20/01/2025
Romina Borla

Los Angeles, mercoledì scorso, quando gli incendi non erano ancora stati domati e nella Contea era stata dichiarata un’emergenza sanitaria a causa del fumo e delle particelle leggere sprigionati dal fuoco: una minaccia per la salute della popolazione, a breve e lungo termine. «In questo momento l’aspetto che tocca maggiormente, a livello emotivo, è vedere tante giovani famiglie spaesate: hanno perso tutto e devono riorganizzare totalmente la loro quotidianità. Decidere dove andare, cosa fare nei prossimi mesi... Anche chi, per miracolo, possiede ancora una casa o un appartamento non può tornarci. Tutti si affannano per trovare un posto dove vivere, una scuola per i figli, un medico disposto a curarli (negli Stati Uniti non è sempre evidente). Tutti scampati. Ci si riconosce al supermercato, vestiti alla meno peggio, perché nel trambusto della fuga non si ha certo avuto il tempo di preparare grandi valigie. Al supermercato – dicevo – alla ricerca di cose semplici, essenziali. Un sorriso nonostante tutto, “da dove vieni tu?” e poi un abbraccio» che scalda il cuore.

A parlare è Margherita Amirkanian, passaporto italiano e statunitense, che sentiamo al telefono mentre sta cercando di raggiungere il suo appartamento a Santa Monica, nota stazione balneare lungo la costa del Pacifico, dove trascorre buona parte dell’anno con il marito americano. «Non è stato distrutto dal fuoco», ci informa. «Ma è pieno di detriti e non sappiamo quando sarà di nuovo agibile». Accanto c’è la dimora di Alex, uno dei suoi due figli. L’altro, che si chiama Pietro, abitava nella vicina Pacific Palisades, quartiere di Los Angeles che è stato quasi interamente devastato dalle fiamme. «Una zona che non era solo lusso, registi e attori famosi… Era un luogo ricercato perché denso di cultura, con una mentalità molto aperta, ricco di prospettive e possibilità. Si trattava di una comunità variegata di persone creative, una comunità solidale». Un posto che adesso non esiste più.

«Era una mattina meravigliosa, con un cielo di un azzurro intenso», racconta la nostra interlocutrice. «Una giornata perfetta ma molto ventosa. Mio figlio ha osservato: forse oggi ci saranno incendi. Lo dico per farvi capire quanto il rischio di roghi qui sia elevato e quanto poco efficaci siano state le azioni di prevenzione». Dopo qualche ora, infatti, scatta l’allarme. «Le peggiori condizioni immaginabili si erano configurate. I venti di Santa Ana che soffiavano forti, caldi e secchi. Siccità: a Los Angeles non pioveva in modo consistente da mesi. Le aree boscose erano piene di sterpaglie secche, non erano state ripulite. Altro grande problema: a Pacific Palisades non c’era acqua, le riserve idriche sono insufficienti per coprire i bisogni attuali. Oltretutto anche la rete elettrica è antiquata: ovunque pali di legno con fili dell’alta tensione penzolanti che ho visto solo in India e in Africa oltre a qui».

Torniamo all’allarme. Arriva un messaggino con l’urgenza di evacuare le scuole. «Mia nuora – spiega Margherita Amirkanian – è volata all’istituto, ha preso figli, tata, cane ed è venuta da noi. So di altri genitori, partiti poco dopo, che sono rimasti bloccati nel traffico. Senza pensarci hanno abbandonato le loro vetture sulla strada per recuperare i loro piccoli. Auto che in parte sono state schiacciate dalle ruspe per permettere il passaggio dei camion dei pompieri. Una mamma di nostra conoscenza è tornata a casa di corsa col bambino in braccio, scoprendo che l’edificio stava già bruciando».

L’intervistata – tra ansie e paure – ha passato parecchie ore sul suo balcone, a Santa Monica, a guardare le fiamme espandersi in tutte le direzioni. «Il vento era fortissimo, un paio di Canadair hanno dovuto abbandonare il campo, era troppo pericoloso. Tizzoni ardenti volavano da tutte le parti. Pioveva fuoco, e ogni “goccia” non faceva che incendiare ciò che sfiorava: un cespuglio secco, una staccionata, un garage». Ad un certo punto l’apprensione è traboccata e la famiglia – sotto shock – ha deciso di fuggire: prima da parenti a Encino e poi in un albergo di Santa Barbara, città a nord di Los Angeles presa d’assalto dall’ondata di profughi. «Nella struttura trovano ospitalità una trentina di famiglie, con bambini e animali domestici al seguito. Pochi vestiti e oggetti, tanta paura negli occhi». «Noi siamo fortunati», seguita a ripetere la signora. «Siamo vicini ai nostri cari, abbiamo trovato una sistemazione comoda, i miei figli continuano a lavorare in modalità smart working. Ma ci sono migliaia di persone stipate in palestre, scuole, rifugi improvvisati». Non tutti oltretutto sono ricchi a Los Angeles. Ci sono governanti, baristi/e, addetti/e alle vendite, e chi più ne ha più ne metta, con ormai poche prospettive.

«Noi siamo fortunati. Addirittura la casa di Pietro a Pacific Palisades è rimasta in piedi. Non c’è gas però, né acqua, le tubature si sono fuse, nessun servizio. Un edificio in mezzo al nulla. Lo ha scoperto suo fratello Alex che con coraggio ha deciso di attraversare il fuoco per andare a vedere. Ha trovato la casa! C’erano fiamme qua e là che lui ha provveduto a spegnere con secchiate d’acqua presa dalla piscina. È anche riuscito a salvare un pezzo di scuola, convincendo dei pompieri ad entrarvi per spegnere il rogo che la stava consumando, mostrando loro la via...». Piccoli grandi gesti di coraggio. Pezzetti di passato che sopravvivono da cui ricominciare. Ma come?