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Un 2024 nel segno della democrazia
Nell’anno appena concluso in più di 60 nazioni si sono svolte delle elezioni democratiche, un «rito» che ha coinvolto anche India e Stati Uniti dove nonostante i timori tutto si è svolto nell’ordine e nella pace
Federico Rampini
Se è vero che «il buon giorno si vede dal mattino», i due attentati che hanno segnato le prime ore del 2025 in America sono di cattivo auspicio. A New Orleans e a Las Vegas gli attentatori hanno agito – secondo le informazioni di cui disponiamo – in nome dell’Isis e in odio a Donald Trump. Non si può escludere quindi che l’avvento della nuova Amministrazione Usa dal 20 gennaio sia un catalizzatore di atti violenti. Che cioè si avverino in ritardo quelle previsioni catastrofiche che nel 2024 erano andate smentite, almeno su questo fronte interno. L’anno che si è chiuso, infatti, andrebbe celebrato come positivo per quanto riguarda la salute del sistema democratico.
Non scordiamocelo: il 2024 è stato l’anno di tutte le elezioni, e di tutte le profezie apocalittiche. Hanno votato gran parte di quegli esseri umani che hanno il privilegio di poterlo fare, perché non vivono sotto regimi dispotici e autoritari.
Più di 60 nazioni hanno celebrato questo rito, che a noi appare banale, scontato, magari perfino un po’ logoro, del suffragio universale; ma che viene negato per esempio a 1,4 milioni di cinesi; oppure viene deformato a una grottesca caricatura laddove le vere opposizioni fanno la fine di Navalny.
Tra i paesi dove si è votato nel 2024 figurano la più grande democrazia del pianeta – l’India che ormai supera gli abitanti della Cina – e la più antica di tutte che è la Repubblica statunitense, nata prima della Rivoluzione francese. Proprio queste due elezioni erano state precedute da gravi timori. Qui negli Stati Uniti si parlava molto della possibilità di votazioni contestate, risultati impugnati, violenze.
Un film di successo uscito nella primavera del 2024 s’intitolava Guerra civile. Hollywood ci ha sfornato un prodotto piacevole ma distante dalla realtà. Non è successo nulla di tutto questo, il rito democratico si è svolto nell’ordine e nella pace, la Repubblica statunitense gode di buona salute. Può non piacere il risultato dell’elezione, ma questo è un altro discorso.
In ogni caso, Donald Trump non ha ricevuto un mandato dittatoriale, contropoteri e bilanciamenti sono già in bella evidenza, per esempio nella dialettica su certe nomine presidenziali, che vede divisi quegli stessi repubblicani chiamati a ratificarle al Senato.
Inoltre, a soli 18 mesi dal suo Inauguration Day del 20 gennaio ci attendono le nuove elezioni legislative di mid-term che possono cambiare nuovamente gli equilibri al Congresso. Il federalismo è un altro contropotere; la California e lo Stato di New York sono già al lavoro per «blindare» certe norme ambientaliste e sabotare l’agenda Trump.
In India, la più vasta partecipazione elettorale del pianeta era preceduta da analisi angoscianti. Molti descrivevano Narendra Modi come un aspirante dittatore, nonché un integralista religioso, impegnato ad abbattere la democrazia indiana per sostituirvi un regime induista intollerante. Cos’è accaduto, in realtà? A smentire l’idea che Modi stesse strangolando la libertà di espressione e soffocando l’opposizione, il voto ha penalizzato il suo partito e ne ha premiati altri. Modi resta al governo ma con una maggioranza ridotta, un segnale di libertà.
Due fra le democrazie occidentali più in vista, Regno Unito e Francia, hanno confermato la tendenza generale del 2024 a far crescere le forze di opposizione per castigare chi stava al potere prima: un segnale di alternanza che è anche un sintomo di buona salute del sistema. I singoli risultati di questo o quel paese possono piacere o non piacere, ma questo non deve inficiare il giudizio complessivo sulla vitalità della democrazia.
Lo stesso è accaduto in Giappone, la più importante democrazia dell’Estremo Oriente, dove pure il partito di governo (i liberali) ha subito un’emorragia di consensi. Oltre all’India hanno votato paesi emergenti di rilievo come Indonesia e Messico: non ci sono state violenze o contestazioni rilevanti.
Non si può estrarre da questa gigantesca partecipazione al suffragio universale una tendenza univoca: in alcune parti del mondo avanzano le destre, in altre no; ci sono state vittorie all’insegna del populismo, ma in generale è prevalso quel malcontento già menzionato verso chi gestisce il potere, e un desiderio di alternanza.
La democrazia è anzitutto un metodo, e a questo metodo gran parte dell’umanità resta affezionata. Ci sono stati, è vero, alcuni golpe militari in Africa. Eppure anche in quel continente un sondaggio ampio e rappresentativo come l’Afrobarometro indica che la maggioranza della popolazione preferisce la democrazia alle dittature, checché ne pensino Xi Jinping e Putin. Sul fronte delle dittature la caduta del macellaio Assad è una buona notizia anche se dobbiamo sospendere il giudizio sulle forze che lo hanno sostituito.
Una delle prime prove del 2025 verrà dal protezionismo. I dazi di Trump stanno producendo effetti prima di entrare in vigore… se mai entreranno in vigore. Su due paesi amici e alleati come il Canada e il Messico, per cominciare. A Mar-a-Lago nel resort di Trump è un via vai di ministri canadesi che offrono concessioni, per esempio sul controllo dei flussi migratori al confine. Il Messico ha già ridotto i passaggi di migranti illegali. Perfino il traffico di Fentanyl è in calo sotto una duplice pressione: colpi ai narcos e auto-limitazione delle esportazioni cinesi dei componenti chimici essenziali per quella droga. Sulle restrizioni ai migranti si attiva pure Panama, che spera di placare l’ira di Trump sulla gestione del Canale.
Le minacce di tasse doganali sono sempre state, almeno in parte, un’arma negoziale per Trump. Se i destinatari acconsentono a concessioni rilevanti, i dazi possono anche rivelarsi inutili. Naturalmente ci sono dei prezzi da pagare. Il Messico potrebbe essere costretto a frenare gli investimenti cinesi in entrata: è diventato una piattaforma dove grandi multinazionali della Repubblica Popolare assemblano prodotti da riesportare sul mercato Usa approfittando del mercato unico nordamericano (Usmca).
Le triangolazioni con cui la Cina ha aggirato i dazi precedenti – imposti da Trump nel 2017-2018 e da Joe Biden dal 2021 in poi – saranno nel mirino della nuova Amministrazione Usa. Paesi che hanno beneficiato del re-shoring o friendly-shoring, cioè delle rilocalizzazioni di attività un tempo basate in Cina, avranno vita meno facile. Oltre a Messico: Vietnam, Cambogia, Bangladesh.
E l’Europa? Un titolo del «New York Times» contiene un verdetto severo: «L’Europa non ha una strategia verso la minaccia dei dazi di Trump». A giustificare il titolo c’è, prima di tutto, la realtà politica. Una risposta forte dell’Unione è ostacolata dalle due crisi di governo in corso in Germania e in Francia (più l’instabilità anche in Belgio e Austria).
All’interno della Commissione di Bruxelles si confrontano due linee. I falchi vorrebbero mettere Trump di fronte alla contro-minaccia di ritorsioni. Le colombe ritengono che l’Europa abbia solo da perdere in una spirale di rappresaglie, preferiscono il gioco preventivo di canadesi e messicani: ad esempio promettendo di importare più gas naturale dagli Stati Uniti, in modo da bilanciare l’attivo commerciale di cui l’Europa gode.