azione.ch
 


Dove e quando
Marina Abramovic, Retrospective, Zurigo, Kunsthaus; orari: ma-me, ve-do 10.00-18.00, gio 10.00-20.00, lunedì chiuso. Fino al 16 febbraio 2025. www.kunsthaus.ch

Marina Abramović, The Message, 2024, Edition für das Kunsthaus Zürich (© Marina Abramović; Foto: Michel Comte)


Abramovic, connessa all’intensità del vivere

Il Kunsthaus di Zurigo propone la retrospettiva di un’artista unica che non lascia indifferenti
/ 06/01/2025
Elio Schenini

Caratteristica essenziale della performance, forma d’arte che assieme all’happening, costituisce uno dei lasciti più significativi delle avanguardie della seconda metà del Novecento, è quella di sovrapporre realtà e rappresentazione rendendo labile e incerto il confine che le separa. Non è del resto un caso che questa pratica artistica, di cui Marina Abramovic è una delle figure pionieristiche, si affermi intorno alla metà egli anni Sessanta nell’ambito di movimenti e gruppi impegnati ad abbattere gli ultimi frammenti di quel muro che nel passato aveva sempre tenuto distinte arte e vita.

Abolire la separazione scenica tra attori e spettatori nel momento stesso in cui avviene la «messa in scena», trasformare l’artista e il suo corpo in un’opera d’arte che interagisce direttamente con il pubblico: sono queste alcune delle motivazioni all’origine delle prime esperienze performative.

Nella performance e ancora di più nell’happening, infatti, non c’è nessun palcoscenico che delimiti il confine della rappresentazione e che in qualche modo separi lo spettatore dalla narrazione proteggendolo al contempo dalla potenza di ciò che osserva, come a teatro.

Assistendo a un’azione performativa il pubblico è costretto a varcare la soglia che lo separa dalla rappresentazione e a condividere non solo lo spazio fisico, ma anche la dimensione simbolica in cui si colloca l’azione del performer. Ed è esattamente questo quello che accade accedendo alla prima sala della retrospettiva che il Kunsthaus di Zurigo in collaborazione con la Royal Academy of Arts di Londra, lo Stedelijk Museum di Amsterdam e il Bank Austria Kunstforum di Vienna dedica a Marina Abramovic.

L’incipit della mostra, è infatti costituito dalla riproposizione di Imponderabilia una performance che ha fatto la storia di questo genere artistico dopo la sua prima presentazione in occasione della ormai mitica rassegna curata da Renato Barilli, Francesca Alinovi e Roberto Daolio alla Galleria comunale d’arte moderna di Bologna nel 1977.

Pur non essendo più quelli dell’artista di origine serba e del suo storico compagno, l’artista tedesco Ulay, ma quelli di due anonimi performer, i corpi nudi di un uomo e di una donna – tra i quali siamo costretti a infilarci per poter accedere allo spazio espositivo – continuano a distanza di cinquant’anni a svolgere il loro compito di impassibili cariatidi che presidiano l’ingresso nel territorio dell’arte, evidenziando il nostro imbarazzo e la nostra difficoltà nel liberarci dalle convenzioni e dalle abitudini in cui sono avviluppate le nostre vite.

Entrare nel mondo di Marina Abramovic significa invece oltrepassare i confini angusti e rassicuranti che circoscrivono la nostra quotidianità; significa mettersi in gioco, accettando di misurarsi con la pienezza del vivere; significa soprattutto entrare in una dimensione dove l’intensità dell’essere al mondo è amplificata alla massima potenza.

Chi non figurasse ancora tra i milioni di utenti che hanno visto gli occhi arrossati di pianto e l’affettuosa ma breve deroga al vincolo dell’immobilità con cui nel 2010 la Abramovic ha accolto l’improvvisa apparizione di Ulay, a vent’anni dalla loro separazione, in occasione di quella che è stata la sua più grande performance degli ultimi decenni, The Artist is Present al MOMA di New York, vada su YouTube a cercare il video di questo momento. Basta infatti questo filmato di pochi minuti per capire lo spirito di un’artista che non a caso ha origine in quell’esplosiva miscela di Oriente e Occidente che sono i Balcani e che con la sua opera ha indagato, senza mai tirarsi indietro o risparmiarsi, le nozioni di limite e di intensità.

Nel caso di una mostra come quella ospitata dal Kunsthaus, che ha tutta l’aria di essere la retrospettiva definitiva, visto che la Abramovic ha ormai quasi ottant’anni, è in qualche modo inevitabile che questa intensità finisca fatalmente per diluirsi, anche perché molte performance, non potendo tutte essere riproposte dal vero, sono documentate unicamente attraverso filmati e fotografie.

Inoltre anche l’intensità, fisica e psichica, delle performance eseguite dal vero, come quella prima ricordata, per quanto affidate ad interpreti addestrati secondo il famoso «metodo Abramovic», non può che risentire dell’assenza della loro carismatica autrice. Al punto che ci si può chiedere se una performance sia veramente replicabile come un pezzo teatrale o se non sia indissolubilmente legata al corpo e alla figura del suo autore.

La mostra compensa tuttavia l’attenuazione dell’intensità con la possibilità di avere uno sguardo complessivo sulla sua opera, così che possiamo coglierne l’intima e assoluta coerenza e apprezzare la duplice natura che caratterizza il suo lavoro sempre in bilico tra corporeità e spiritualità, tra estrema tensione emotiva e rigido autocontrollo. Al contempo una serie di opere partecipative costituiscono altrettanti inviti a farci carico direttamente dell’azione a partire da quelli che lei chiama «oggetti transitori», sculture interattive realizzate con minerali in cui è racchiusa la potenza energetica della natura.

Ripercorrendo l’intera vicenda dell’Abramovic appare infatti chiaro che negli ultimi decenni l’artista abbia sempre più spesso rinunciato a occupare il centro della scena, chiamando gli spettatori a prendere il suo posto, consapevole che se la sua arte avrà un futuro anche dopo la sua scomparsa, sarà solo grazie alla condivisione di quel «metodo» che il lungo estenuante e sofferto lavoro su sé stessa le ha permesso di elaborare.

Un metodo che ci parla di limiti e di confini da superare e che ci indica l’autocontrollo come unica strada per affrontare la vita con la radicalità che ogni gesto richiede. Rifugiarci in quella che Heidegger definiva una vita inautentica per evitare i rischi connessi all’intensità del vivere, come quando frapponiamo continuamente tra noi e la realtà le superfici lucide dei nostri smartphone non è una soluzione, ce lo ricorda la stessa Abramovic con l’installazione espressamente realizzata per la mostra di Zurigo e intitolata Decompression Chamber.

Nell’era della grande distrazione tecnologica di massa forse l’unica cosa da fare è veramente isolarci dal mondo, interrompere almeno temporaneamente il reticolo di interconnessioni in cui siamo costantemente assorbiti per tornare a occuparci di quella forma d’intelligenza del cui sviluppo, trascinati dalla smania per l’artificialità, ci stiamo occupando sempre meno, quella della nostra mente.