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Il rapporto tribolato tra Svizzera ed Ue

Uno sguardo alla storia per capire punti fermi e problemi che si trascinano da decenni
/ 23/12/2024
Roberto Porta

È arrivato appena prima di Natale il nuovo accordo che rilancia le relazioni tra la Svizzera e l’Unione europea. Una strenna di fine anno che aprirà ora intense discussioni politiche all’interno del nostro Paese, tra chi la ritiene un regalo avvelenato e chi invece vede in questa intesa uno strumento capace di dare stabilità alle relazioni bilaterali con il nostro grande vicino europeo. Si apre ora una fase di consultazione interna prima della firma di questi nuovi patti, in seguito toccherà al Parlamento riuscire a tirare le somme di questo accordo, poi la parola passerà al Popolo, e forse anche ai Cantoni. Ci troviamo in una sorta di punto nodale: siamo giunti al termine delle trattative con Bruxelles ma siamo anche all’inizio di un lungo percorso verso la votazione popolare più importante di questi ultimi decenni.

Dentro questo bivio val la pena di dare uno sguardo alla storia delle relazioni tra Svizzera e Unione europea per capire come si è mosso finora il nostro Paese e per individuare i punti fermi e le questioni ancora irrisolte di questo tribolato rapporto. Per farlo ci affidiamo ad alcune citazioni che abbiamo trovato sul sito dodis.ch, il centro di ricerca che a Berna analizza la storia della nostra politica estera. La prima citazione ci arriva da Max Petitpierre, eletto in Consiglio federale nel 1945 e per 16 anni capo della diplomazia svizzera. Nel 1957, anno di fondazione della Comunità economica europea, il ministro degli esteri scrive che «il problema maggiore che si pone oggi è quello del nostro atteggiamento nei confronti delle istituzioni europee». Per Petitpierre il nostro Paese non era allora pronto per elaborare una propria «dottrina europea», questo perché «per avere delle possibilità di essere approvata dalla nostra popolazione dovrebbe essere troppo prudente, con il rischio di non venire capita e accettata dagli altri Paesi europei». Il nostro Governo capisce però che dentro questa evoluzione non può rimanere isolato, e per questo motivo, con altri sei Paesi, partecipa nel 1960 alla creazione dell’Associazione europea di libero scambio, nata con lo scopo di facilitare gli scambi commerciali, senza nessun tipo di collaborazione politica.

Una cooperazione istituzionale su cui invece si basa da sempre l’Unione europea. E questo continua ad essere ancora oggi uno dei grandi punti di contrasto tra il nostro Paese, che vede nel commercio di beni e servizi il perno attorno a cui ruotano le nostre relazioni bilaterali, e l’Ue che chiede invece anche un avvicinamento istituzionale. Ma torniamo a quegli anni Sessanta del secolo scorso, un periodo in cui Berna cerca comunque collaborazione e accordi con i cosiddetti Stati fondatori dell’Unione europea: Germania, Francia, Italia e i Paesi del Benelux. E qui arriviamo alla seconda citazione, che porta la data del 28 febbraio 1961 e la firma di Etienne Dennery. L’allora ambasciatore francese a Berna scrive queste parole al nostro Governo: «Se la Svizzera non modifica la sua attitudine generale sarà difficile accordarle delle concessioni anche solo parziali (…) Il vostro Paese avrebbe solo da guadagnarci a far prova di più moderazione e realismo». Berna fa i suoi interessi e cerca di cogliere il massimo possibile dalle relazioni con l’Ue, creando anche nervosismi e incomprensioni.

Non per nulla, sempre nel 1961, Agostino Soldati, rappresentante svizzero presso la Comunità economica europea scrive in una nota inviata a Berna: «La Svizzera è il Paese meno popolare a Bruxelles, a causa della sua attitudine critica e per lo scetticismo che manifesta nei confronti del mercato unico». Insomma rapporti tesi, che si sono ripresentati anche in seguito, e qui ricordiamo che una nota interna alla Commissione, del 2012, definiva la Svizzera «una seccatura». Ma torniamo al 1961, anno che si chiuderà con una sorprendente accelerazione da parte di Berna. Il 15 dicembre il Governo scrive alla Commissione europea per annunciare di essere pronto ad aprire una procedura di adesione alla Comunità europea. «Il Consiglio federale (…) è arrivato alla convinzione che è possibile trovare una forma appropriata di partecipazione al mercato europeo, che permetta di rispettare la nostra neutralità e l’integrità della Comunità europea», scrive l’allora presidente della Confederazione, Friedrich Wahlen. Un passo legato ad una medesima richiesta inoltrata dalla Gran Bretagna, poi però bocciata dal presidente francese Charles De Gaulle, che non ne volle sapere di una presenza del Regno Unito tra i Paesi della Cee. E così anche la domanda di adesione svizzera finì su un binario morto.

Berna si concentrò in seguito sugli aspetti commerciali, e sottoscrisse nel 1972 un accordo libero scambio con Bruxelles. Facciamo ora un salto di vent’anni, questo perché una nuova domanda di adesione venne presentata nel 1992, alla vigilia del voto sullo Spazio economico europeo. Quella richiesta di adesione contribuì di sicuro alla bocciatura popolare dello See, Spazio che non poteva più essere visto come un punto di arrivo ma solo come una soluzione transitoria, una tappa verso l’adesione piena all’Unione europea. Un’ipotesi sempre osteggiata dalla maggioranza della popolazione svizzera. Dopo quel voto, che rappresenta ancora oggi una cesura di fondo nel cammino europeo del nostro Paese, si aprì un periodo di incertezza che portò all’apertura dei negoziati che diedero poi forma ai primi accordi bilaterali, nel 1999.

Da allora si è aperta una fase che si protrae ormai da 25 anni. Un periodo di crescita economica e di incremento demografico, un quarto di secolo in cui è tornata ad emergere anche la cosiddetta «questione istituzionale», la stessa che aveva già frenato il nostro Paese ai tempi di Petitpierre. Un nodo da sciogliere legato alla nostra sovranità e alla ripresa del diritto europeo, per quanto riguarda l’accesso al mercato unico. Con conseguenze, ancora da soppesare, anche sulla nostra democrazia diretta. E qui terminiamo con un’ultima citazione, questa volta del Consigliere federale Beat Jans: «In un mondo complesso, la nostra sovranità si può rafforzare soltanto chiarendo le relazioni con il nostro partner più importante. E questo vale soprattutto per un Paese piccolo come la Svizzera». Terminate le trattative volute proprio per migliorare la nostra posizione nei confronti dell’Ue, resta ora da trovare un’intesa interna su questo nuovo patto europeo. Il percorso sarà ancora lungo, il nostro Paese è tuttora alla ricerca di «una forma appropriata di partecipazione al mercato europeo», come scriveva il consigliere federale Wahlen. E sono trascorsi ormai più di 60 anni.