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Viaggi d’autore
In mostra al Masi di Lugano
25/11/2024
Giovanni Medolago
Si intitola Viaggi la mostra attualmente in corso al LAC di Lugano e dedicata a Luigi Ghirri. Un omaggio all’opera più celebre e forse più importante del fotografo emiliano: Viaggio in Italia. Un progetto che si concretò nel 1984, con l’uscita del libro omonimo e mostre un po’ ovunque nel Bel Paese e all’estero. Da allora è considerato una pietra miliare per la storia della fotografia contemporanea, e non solo italiana: le idee che lo guidarono possono anzi considerarsi una sorta di Manifesto di quella che sarebbe diventata nel corso di più di un ventennio una fondamentale tendenza della ricerca fotografica, affermatasi poi a livello internazionale come la scuola di paesaggio italiana.
Alla base del progetto vi era l’intenzione di creare un nuovo ABC del paesaggio, utilizzando la fotografia come strumento intellettuale e al tempo stesso affettivo per entrare in relazione con la complessità del mondo esterno, in questo caso con il paesaggio italiano, così a lungo rappresentato e carico di iconografia, però senza retorica, senza ricorso a stereotipi, senza gerarchie. È forse la prima volta che un gruppo di una ventina di fotografi – Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Giovanni Chiaramonte, Mario Cresci, Mimmo Jodice, Guido Guidi e tra gli altri lo stesso Ghirri – viene invitato a uscire dai centri storici delle città.
La loro attenzione va spostata ai margini, alle periferie dimenticate e a tutto ciò che fino ad allora non era considerato degno di uno sguardo artistico perché disarmonico o troppo eccentrico. Diviene invece il soggetto ricorrente di un nuovo modo di raccontare il Bel Paese. Il paesaggio non è più solo lo sfondo sul quale si svolgono le vicende umane, non è più solo un soggetto passivo, bensì la lente attraverso cui guardare. Per la prima volta, la fotografia sceglieva di uscire dai propri confini per dialogare con altre forme espressive (la letteratura, il cinema, l’architettura, la grafica), aprendosi al mondo come mai prima. È un’autentica rivoluzione, che arriva fino a noi, alla cultura visiva in cui siamo immersi.
«Non è un caso che molti parlino della fotografia – scriveva Ghirri nel 2010 – come di una tecnica ormai arcaica, superata dalla velocità dei video e del cinema stesso, dei nuovi sistemi di rappresentazione, dell’immagine digitale. Credo invece che, al di là di tutto, la fotografia possa metterci in relazione con il mondo in una maniera profondamente diversa: essa rappresenta sempre meno un processo di tipo conoscitivo. Rimane però un linguaggio per porre delle domande sul mondo. Con la mia storia ho percorso esattamente questo itinerario, relazionandomi continuamente con il mondo esterno, accompagnato dalla convinzione di non trovare mai una risposta alle domande. Anzi: con l’intenzione di continuare a porne, e questa mi sembra già una forma di risposta».
Nato a Scansiano (RE) nel 1943 e prematuramente scomparso a 49 anni, un diploma di geometra che, stando a molti, influenzerà il suo excursus fotografico, Ghirri fu importante anche quale teorico dell’immagine in senso molto lato. Cordiale quanto sintetico con chi gli poneva domande banali («Perché uso solo pellicola a colori? Perché la realtà è a colori!»), i suoi testi critici gli valsero la definizione di filosofo dello sguardo; chi ammirava i suoi scatti (il collega e amico Vittorio Fossati) commentava altrettanto laconicamente: «Mi riporta a riscoprire la grandezza della semplicità». Mentre lo scrittore Gianni Celati parlò di Fotografo dell’assenza.
Tre pensieri di cui avrà ben traccia il visitatore del LAC: nelle sue immagini di spiagge solitamente affollate di Orbetello, Marina di Ravenna o dell’Île Rousse, non c’è traccia di presenze, Ghirri preferisce andare alla ricerca del particolare curioso. La pallina da soft volley perfettamente adagiata sulla linea dell’orizzonte, o il porcospino beatamente addormentato su un variopinto ombrellone. A Cervia, quasi una mise en abyme, ecco in primo piano il manifesto con lui e lei che si baciano appassionatamente per lanciare il concorso «Chiudi il gas e vieni a Hollywood!», mentre il campo lungo con una coppia nei giardini di Versailles ci ha ricordato l’ultima sequenza di Tempi moderni.
Alla fine dei suoi Viaggi, Ghirri propone un originale «Identikit» (1979) facendoci sbirciare nella libreria della sua casa, meta ultima dalla quale non si è mai veramente staccato. Accanto ai libri sui suoi illustri colleghi (su tutti Carleton E. Watkins, pioniere a metà Ottocento della fotografia paesaggistica negli Usa), ecco i versi di Walt Whitman: «O capitano, mio Capitano», e del poeta andaluso Juan Ramón Jiménez, Nobel nel 1956. Scelte perfettamente coerenti con l’appello che Luigi Ghirri non si è stancato di lanciare con le sue immagini e i suoi scritti: la fotografia deve aprirsi al mondo intero o, in via subordinata, almeno a quello di tutte le altre Arti!
Dove quando
Luigi Ghirri. Viaggi – Fotografie 1970-1991, Lugano, Museo d’arte della Svizzera Italiana, LAC. Fino al 26 gennaio 2025. www.masilugano.ch
L’eredità di Luigi Ghirri nelle parole di Guido Guidi
In una chiacchierata sull’evoluzione dell’immagine oltre la tradizione del reportage, a quarant’anni dalla pubblicazione di «Viaggio in Italia», il fotografo di Cesena restituisce uno spaccato del cambiamento epocale che attraversò il panorama fotografico italiano
Manuela Mazzi
«Luigi merita che tutti i fotografi di oggi gli bacino i piedi, ma le agiografie non fanno altro che danneggiarlo». Così esordisce Guido Guidi, riflettendo sul lavoro di Luigi Ghirri, con il quale ha vissuto e partecipato a una delle rivoluzioni più importanti della fotografia italiana, che ebbe luogo negli anni 80-90. Nato a Cesena nel 1941, Guidi è di fatto uno degli autori le cui fotografie furono pubblicate nel famoso Viaggio in Italia (vedi articolo di spalla), e tra i fotografi ancora viventi che hanno contribuito a ridefinire il modo di guardare il paesaggio italiano. Un cambiamento, come ha ricordato in questa chiacchierata Guidi, già professore di storia e tecnica della fotografia presso l’Accademia di Belle Arti di Ravenna, che ha visto nascere la fotografia artistica.
Un tempo la fotografia era altro…
Negli anni 40-50, imperava il neorealismo e, insieme a esso, la fotografia di reportage, che vedeva un fotografo andare in Columbia a curiosare tra le piantagioni di cotone, e l’altro, in Vietnam a seguire la guerra.
Parliamo del periodo in cui emergeva anche Ferdinando Scianna?
Esatto, i fotografi – fuori dallo studio – venivano dalla scuola di Henri Cartier-Bresson. Noi, invece, partivamo dai topografi, io, almeno, Ghirri un po’ meno.
Ma entrambi avete generato uno spostamento nel fare fotografia.
A quel tempo i fotografi, stanchi di tirare la carretta e di essere pagati poco, hanno cercato in tutti i modi di entrare nel mondo delle gallerie d’arte. Ma la strada che abbiamo imboccato noi, io, Ghirri, eccetera, è una strada irta di trabocchetti, perché ti porta a fare delle cose al servizio della galleria. Rifiutando la committenza del giornale che non procurava soldi (all’epoca si parlava di 200 lire se le vendevi al «Corriere della Sera»), e accettando il patrocinio della galleria, la fotografia si è un po’ snaturata per essere più simile alle opere d’arte che si vendono in commercio.
Tuttavia, oggi si fanno anche mostre di fotoreportage, elevandoli allo statuto di opere d’arte.
Mi lasci raccontare questo aneddoto proprio su Scianna, che considera la fotografia artistica un peccato mortale: molti anni fa visitò una mostra che feci a Milano, di fianco alla libreria Hoepli, alla Galleria San Fedele, che è ancora gestita dai frati gesuiti. Mi ricordo che poi chiese di parlare con il capo, che era Padre Andrea Dall’Asta, il direttore, al quale disse: «Sono Ferdinando Scianna e sono venuto a vedere questa mostra perché pensavo che fosse una stronzata; e quello che ho visto me lo conferma».
Il cambiamento toccò oltre il «contenuto», ovviamente, anche la forma e soprattutto l’uso del colore.
Luigi passa per essere il primo fotografo a colori, ma già un ventennio prima di lui lo usava il suo conterraneo Franco Fontana (ndr: entrambi dell’Emilia-Romagna), come Stephen Shore in America; e diversi anni prima ancora, Luigi Veronesi – ndr. pittore, fotografo, regista e scenografo milanese – faceva dei film a colori, che si sono conservati in modo perfetto. Usava la famosa pellicola Kodachrome. Diapositive che bisognava mandare a Milano, te le sviluppavano, poi te le rispedivano indietro incorporate nei telaietti.
E dunque la novità qual era?
Il problema era la stampa a colori, che fino agli anni Ottanta era di cattiva qualità. Siccome Luigi partì dal fotoamatorialismo, lui all’inizio non se ne curava, perché i fotoamatori si riunivano nei bar, dove proiettavano le immagini delle diapositive sui muri. Passò alla stampa quando s’era messo in testa, come detto, di fare delle mostre, che all’epoca non si facevano; lui ne aveva bisogno. Così iniziò a ordinare dei duplicati in negativo delle diapositive, e da lì procedeva con la stampa, su una carta che però si deteriorava rapidamente, in quegli anni. Le cose cambiarono grazie alla Kodak che a un certo punto migliorò la carta fotografica, era il 1984 (’85/’86 in Italia, dopo gli svuotamenti dei magazzini che avevano i vecchi stoccaggi). Uno «sviluppo tecnologico» di cui, tuttavia, in verità nessuno si accorse.
Nemmeno lei?
Ho iniziato a fotografare nel ’56-’57, all’età di 15-16 anni, ma solo nell’84 sono passato al colore. Cioè, qualcosa avevo stampato anche negli anni precedenti, ma poco e non perché fossi consapevole del cambiamento in atto, ma semplicemente perché prima non mi piaceva la qualità della stampa.
Colore che si fa comunque notare ancora oggi per la bassa saturazione: si trattava di una scelta poetica?
Puoi fare una scelta poetica di questo genere solo se hai la possibilità di compierla…
Nondimeno, il critico Roberto Maggiori affermò che «la bellezza è verità e la verità è la mancanza di retorica», come a dire che una fotografia non gridata, ovvero che la scelta di non avere colori sfacciati, da una parte serva per assecondare un principio di bellezza e dall’altra per renderla più vera.
Sì, più autentica. Franco Fortini, poeta e saggista, in una conferenza disse che «…se devo scrivere sul pane, che non c’è niente di più retorico del pane, la poesia la posso scrivere in dialetto, forse, ma non sicuramente in italiano, non nella lingua madre. La posso scrivere con la lingua più dimessa, più umile, insomma», e dunque, per portare acqua al mio mulino, e anche a quello di Luigi, noi abbiamo optato per questo tipo di fotografia perché ci permetteva di essere più umili. E poi, come diceva Walker Evans, c’è un particolare piacere, per chi lo sa trovare, nell’usare un linguaggio disprezzato dai più.
Quando incontrò la prima volta Ghirri?
Ci siamo conosciuti, io e Luigi, alla mostra che Renato Barilli organizzò alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna, era il ’76/’78 circa. Ghirri insieme a Franco Fontana e Paola, la sua compagna, vennero all’inaugurazione. Da lì abbiamo iniziato a frequentarci: sono stato un paio di volte a casa sua, e a un certo punto mi ha invitato a pubblicare un libro che avrebbe dovuto chiamarsi Album, ma non uscì mai a causa di un crack finanziario dell’editore; aveva fretta lui, io invece ero molto meno frenetico di Luigi, lui si vede che sapeva inconsciamente che doveva morire presto.
E infatti, un volume con quello stesso titolo, uscirà solo a breve e a sua firma, giusto?
Sì, la casa editrice londinese Mack Books ha in programma di editare altri due miei libri: Andata e ritorno e poi Album, che completerà la trilogia dopo la pubblicazione del libro Di Sguincio, dell’anno scorso.
Una raccolta, quest’ultima, di scatti che sembrano essere lasciati all’improvvisazione e al caso durante il processo creativo…
No, non è stato per essere creativo, ma per liberarmi la mente. Tutti noi studiamo, chi più chi meno; molti artisti studiano poco per non essere influenzati da qualcosa, e questo è un guaio, perché bisogna essere influenzati, altrimenti restiamo ignoranti. Diciamo, però, che studiando, il cervello da innocente diventa un cervello armato. Allora come si fa a liberarsi dell’armatura? Si fa con degli espedienti. Uno di questi è appunto quello che mi aveva suggerito un professore di Rochester: fotografare senza guardare, per vedere se quello che ho fotografato sta nelle aspettative di uno che ha il cervello condizionato, oppure in quelle di uno che è riuscito a liberarsi del cervello, o più propriamente delle convenzioni; per evitare di fotografare soltanto i paracarri, oppure soltanto i palazzi, o solo i cachi maturi, perché si può fotografare anche le merde.
Ma che senso ha?
C’era un musicista famoso del secolo scorso, John Cage, che diceva: «Non ci sono risposte» (ndr. sorride, prima di farsi di nuovo serio). Francesco Arcangelo, noto critico d’arte bolognese, diceva che un dipinto non si legge, lo si contempla. Ecco, io non so se avesse ragione o meno; si può anche leggere, non è un peccato mortale, ci può aiutare a entrare nella comprensione, a portarci l’opera più vicina, ma non per capirla. In questo senso vale la pena di ricordare anche Bruno Munari che, in esergo a un libretto di teoremi sull’arte, mise questa frase: «Il miglior modo per non comprendere un’opera è quello di volerla capire». Un conto è capire, come dicono gli italiani, un conto è comprendere, come dicono più spesso i francesi, no?
Ghirri puntava però molto sulla comunicazione.
Ha perfettamente ragione: ed è questo un nodo fondamentale. Ricordo, ad esempio, che durante una nostra mostra a Ferrara – Icone Città, c’è un cataloghino giallo – dopo aver appeso le foto al muro, di ognuno le proprie, Luigi si avvicinò e disse: «Io la metterei di qua, questa fotografia, non di là. Perché sennò non si capisce mica. Bisogna che si capisca».
E infatti nelle Lezioni di fotografia di Ghirri, a cura di Giulio Bizzarri e Paolo Barbaro (Quodlibet, 2010), il fotografo di Scandiano scrive che sin dagli inizi cercò di «costruire e progettare interi lavori» il che «significava pensare a una forma di narrazione per immagini anziché alla costruzione di singole immagini».
È vero, lo ripeteva spesso. Penso che avesse bisogno, di volta in volta, di confermare un pensiero che scorre per tutta la scena. Cioè, se io vedo un pulcino nella prima fotografia e poi nella seconda vedo ancora un altro pulcino, sono più convinto che il punto di quella fotografia sia il pulcino, no? Ecco, una conferma in qualche modo aiuta la comunicazione. Devo dire però che questa premura di essere capito, secondo me impoverisce l’opera.
Perché?
Perché l’opera non è fatta per comunicare. Anzi, come diceva il mio maestro Italo Zannier, si fotografa per comunicare a sé stessi. Dal canto suo, pure Shore diceva che «il problema è quello di trovare la propria immagine mentale», ma come la trovi se non la conosci? La trovi solo facendo, e facendo, e facendo, alla fine ti avvicini all’immagine mentale, ma è sempre un’iperbole. Per dirla in modo più semplice: io sono più vicino alla modalità di Picasso, che diceva «non cerco ma trovo», mentre Luigi avrebbe potuto dire «non trovo ma cerco».
Fallito il primo Album, con Ghirri però un lavoretto, prima di darvi al grande progetto, lo avete fatto.
Pubblicammo un piccolo libro praticamente sconosciuto, Due fotografi per il Teatro Bonci, commissionatoci dal Teatro di Cesena; una brochure stampata in poche copie. Solo dopo ricevetti la telefonata di Luigi, con cui mi chiedeva se volessi partecipare al progetto Viaggio in Italia; naturalmente consentii subito.
E da qui, la «rivoluzione»! Che ancora riverbera nelle opere di qualche giovane autore. Sono rimasti – incastrati? – nella scia dei maestri, invece di evolversi in altro?
Le rivoluzioni non è che succedano tutti gli anni. Ci sono periodi storici in cui ci sono delle forze che raggruppate generano un cambiamento, no? Per esempio, il ’68. Io ero studente all’università in quegli anni, che alla lunga si sono rivelati decisamente formativi. Questi movimenti generano rotture a volte anche non volute. Rotture, infrazioni rispetto a quello che c’era prima. Quindi non è giusto pretendere da chi non ha vissuto grosse rivoluzioni, dei cambiamenti totali.
Cambiamenti che si sono fatti tuttavia audaci con l’avvento del digitale.
Penso che questa New Age vada contro la tradizione della storia; per i latini, per gli antichi dotti romani, l’autore è semplicemente colui che aggiunge, e non colui che crea. In questi anni l’artista è diventato un creatore, una volta c’era solo il Padre Eterno che era creatore. Ne penso male, ne penso male perché è una fotografia che non ha un fondamento; la fotografia in questi anni deve essere assolutamente nuova, direi differente, c’è una sorta di gara per inventarsi delle stramberie per distinguersi, come anche la grandezza, la dimensione della fotografia, che sembra che chi più ne ha più ne metta, di centimetri e di metri. Mentre la fotografia è nata per metterla nel portafoglio, per portare con sé l’immagine del fidanzato e della fidanzata, questo è il vero uso della fotografia, quello autentico.
Quindi, meglio rimanere collegati alla tradizione?
Il manierismo ha la sua necessità d’essere. Ecco, io non sarei così critico con chi non si lascia travolgere dalla corrente della nuova generazione. E del resto, anche quelli che hanno generato cambiamenti all’epoca, non volendo, si appoggiavano su certi fondamenti. Per dire, noi ci appoggiavamo, io perlomeno, sulla fotografia antica, Ghirri, forse, più che sulla fotografia antica, aveva quale fondamento la pittura italiana del Sette-Ottocento.
Più precisamente?
Giorgio de Chirico tra i contemporanei, e risalendo, Bernardo Bellotto, tra i pittori che hanno usato la prospettiva, per non dire di Caspar David Friedrich, un romantico, che incise moltissimo sulla fotografia di Luigi, soprattutto, su come lui ha fotografato l’architettura del passato, dove viene fuori l’enfasi romantica.
Enfasi meno evidente nel catalogo della mostra I Viaggi, uscito da poco per le edizioni del Masi.
Il romanticismo, in questo volume, è molto più sotteso, meno dichiarato – diciamo – sebbene resti pur sempre latente.
Torniamo, dunque, al paesaggio come rifugio interiore e di introspezione. Ghirri, nelle sue Lezioni, scrisse che «il fotografo partecipa attivamente alla creazione di realtà»: si può dire che l’immaginario sul paesaggio, se non addirittura il paesaggio stesso, potrebbe essere stato influenzato dalla fotografia – e in particolare dal Viaggio in Italia – che non il contrario?
Ma sì, è possibile in qualche modo, tanto più che gli urbanisti con i quali sono stato in contatto per molto tempo si sono avvalsi della fotografia per leggere – usando una parola un po’ equivoca – dicevo, per leggere il paesaggio. La fotografia, cioè qualsiasi cosa che noi facciamo, in qualche modo influenza i gesti, le parole, i fatti di coloro che ci ascoltano. Anche se uno è un urbanista e l’altro è un operaio in fabbrica, dopo un loro incontro, in qualche modo, si saranno influenzati l’uno con l’altro.
Paesaggio che, sia nelle sue opere sia in quelle di Ghirri, si fa periferia: solo per allontanarsi dalle cartoline?
William Fox Talbot, inventore della fotografia, diceva: «Mi piace fotografare una scopa, una scopa ma anche una porta malandata: posso farlo?». Certamente, è la risposta, visto che i pittori olandesi se ne sono già occupati da un pezzo (ndr: sorride, e poi riprende per evitare che le immagini si leggano in modo troppo superficiale o banale). Quando la luce fotografa un paesaggio o un fosso, quello che è il punto di fuga è al centro. È il centro che fotografiamo, e ai bordi c’è spazio. Questo contraddice le regole della prospettiva di Leon Battista Alberti, il quale diceva: «Sì, mettiamo l’orizzonte all’altezza d’uomo, ma il punto di fuga – cito – ponlo là dove tu vuoi». Il punto di vista di Battista Alberti dunque non è centrale. È la chiesa, cattolica, romana, apostolica, che ha portato la prospettiva verso un’evoluzione di centralità. E questo non mi piace. Nella tradizione pittorica italiana, soprattutto, al centro ci sta la Madonna con il bambino, al fianco ci stanno i santi, e poi i santi meno importanti, e poi ancora quelli meno importanti, e poi magari i bambinetti che svolazzano in periferia. A noi piace la periferia del quadro, in accordo con le prediche che faceva John Szarkowski, quando era vivo: la fotografia inizia dal bordo e non dal centro. Detto questo: continuo a sostenere che il paese d’origine dove sono nato – nella periferia di Cesena –, le persone che ho conosciuto, gli oggetti che ho toccato quando ero bambino continuano a essere presenti nella mia storia di fotografo.
Informazioni
Il prossimo 12 dicembre uscirà l’opera magna di Guido Guidi, Col tempo, 1956-2024, una monografia di 400 pagine (per le edizioni Mack Books) che inaugurerà anche l’omonima mostra al MaXXI (Museo nazionale delle arti del XXI secolo) di Roma,dal 13 dicembre al 20 aprile 2025.