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Così Trump ha diviso anche la religione
Reportage da Salt Lake City, negli Stati Uniti, dove la chiesa mormone guarda con sempre più simpatia ai democratici
Giulia Pompili
Entrare nel campus della Brigham Young University (BYU) di Provo, a pochi chilometri da Salt Lake City, la capitale dello Utah, è come tornare indietro nel tempo a una cinquantina di anni fa. Al piano inferiore di uno degli edifici principali di questo mastodontico college c’è il bowling. «Frequentatissimo alla sera!», ci spiegano. Poco più avanti, da una sala laterale, arriva della musica particolarmente allegra: dentro ci sono decine di ragazzi e ragazze che ballano: «Il corso di danza tradizionale e folcloristica qui è uno dei più antichi del Paese». In questo college tutte le lezioni si aprono con una preghiera. Ai corsi più comuni, gli studenti affiancano lezioni di «benessere spirituale», lettura di sacre scritture e storia delle religioni. La Brigham Young University è un’università fondata nel 1875 e oggi considerata «la Harvard dei mormoni».
Non è facile essere ammessi, per via dei programmi di studio molto competitivi, tra cui uno dei corsi di giornalismo più famosi del Paese, ma anche perché rispetto ad altre università prestigiose, la BYU costa meno grazie a un gran numero di borse di studio che sono quasi tutte finanziate dalla proprietà del college, cioè la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni, il nome formale della chiesa cristiana fondata nel 1830 dal predicatore Joseph Smith dopo la rivelazione del Libro di Mormon. La BYU è un pezzo fondamentale dell’immagine della chiesa, una delle più potenti d’America, che fino alla scorsa settimana aveva nove membri del Congresso americano suoi appartenenti: tutti repubblicani. Il legame fra mormonismo, formazione e politica è evidente alla BYU, dove si formano i leader di domani e che fino a oggi sono sempre stati rigorosamente di area repubblicana. Poi è arrivato Donald Trump, e anche qui qualcosa è cambiato.
Le richieste di ammissione alla BYU sono sempre di gran lunga superiori ai posti disponibili (nel 2022 34’464 studenti ammessi), nonostante le regole siano piuttosto restrittive: nella filosofia dell’università ogni studente «rappresenta» la chiesa mormone, e quindi sono vietati gli alcolici, niente abbigliamento eccentrico o troppo sciatto – per gli uomini niente capelli lunghi, niente barba, solo baffi ma «ben curati» – e siccome «il corpo è sacro» vanno evitati tatuaggi, piercing, ma anche qualunque sostanza possa alterare lo stato psicofisico come «tabacco, il caffè, il tè e altre droghe e sostanze nocive che non fanno bene né al corpo né allo spirito». Naturalmente sono vietati i rapporti sessuali al di fuori del matrimonio. Jen Nishiguchi, che lavora alla BYU come manager internazionale, ci spiega che le richieste per studiare qui vengono da tutto il mondo, soprattutto da famiglie religiose che vedono nel college della chiesa uno «spazio sicuro».
Non c’è un’istituzione più influente a Salt Lake City e nell’intero Utah della chiesa mormone. I critici e sostenitori della laicità delle istituzioni pubbliche sottolineano di frequente che al Campidoglio dello Stato siedono per la maggior parte membri della chiesa. Nello Utah, se vuoi fare carriera politicamente, «devi per forza essere un membro», ci spiega Neil, insegnante in pensione che arrivò a Salt Lake City da New York, più di cinquant’anni fa, come moltissimi altri soltanto per le montagne e lo sci. Il nuovo tempio in costruzione al centro della città è un mastodontico tributo alla centralità della religione, e il rito della domenica di andare ad ascoltare il famoso Coro del Tabernàcolo Mormone – uno dei cori più famosi del mondo – dà senso alla ritualità comune che è identità di una intera città. Eppure la roccaforte dei repubblicani non è più così convintamente conservatrice, e uno dei motivi fondamentali è stato proprio Donald Trump.
Grace ha trent’anni, non è mai uscita dai confini dello Utah e, come moltissimi suoi coetanei, fa dei turni in un ristorante e guida un Uber. Nella sua auto c’è un termos di caffè caldo, dalle sue braccia spuntano alcuni tatuaggi. «Certo, faccio parte della chiesa», ci spiega. «Ma dieci anni fa qui è cambiato tutto. Trump ci ha mostrato che anche i repubblicani possono andare contro i princìpi religiosi». Durante le fasi più intense della campagna elettorale, anche nei giardini delle case di Salt Lake City sono iniziati a comparire i cartelli blu «Harris-Walz», una cosa impensabile fino a qualche anno fa (Neil ci spiega che lui pure ha votato democratico, ma no, il cartello non lo ha messo per paura che qualcuno venisse a fare qualche dispetto alla sua villetta). Trump dice bugie, è volgare, anche nel suo atteggiamento con le donne, e vìola uno dei principi fondamentali della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni: l’accoglienza nei confronti di immigrati e stranieri. Le sue azioni tradizionalmente vicine al conservatorismo repubblicano, per esempio la nomina alla Corte suprema che ha portato al rovesciamento della Roe v. Wade e alla fine dell’aborto come diritto tutelato a livello federale, non sono stati sufficienti per fermare il progressivo allontanamento della chiesa dai repubblicani trumpiani, e allo stesso tempo l’inesorabile avvicinamento della nuova generazione di mormoni al Partito democratico. Per non parlare del «culto della personalità», ci dice quasi in coro un gruppo di ragazzi alla BYU: fanno riferimento al video che Trump ha usato spesso nell’ultimo periodo della campagna elettorale prima dei comizi, chiamato «God Made Trump», nel quale il tycoon sostiene di essere mandato da Dio a salvare l’America. Secondo gli osservatori americani, questo è uno dei motivi per il quale anche gran parte delle chiese evangeliche si sono allontanate dalla politica federale, rompendo il tradizionale patto con il Partito repubblicano. A giugno scorso perfino il centenario presidente della chiesa mormone, Russell M. Nelson, ha pubblicato una lettera ai fedeli dove scriveva che partecipare alle elezioni è importante, ma «votare in base alla “tradizione” senza studiare attentamente i candidati e le loro posizioni su questioni importanti è una minaccia per la democrazia» – un riferimento che in molti hanno indirizzato al Partito repubblicano e a Trump.
Sono poche le religioni e i culti che in America sono rimasti in blocco fedeli a Trump. Anche la chiesa dell’Unificazione, originaria della Corea del sud alle cui convention il milionario ex presidente ha partecipato spesso, dopo essere stata al centro di polemiche e indagini giudiziarie in Giappone ha spostato i suoi affari in America. Sean Moon, figlio americano del reverendo Moon fondatore della Chiesa dell’Unificazione, ha partecipato all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio. E poi c’è la Word of Faith Fellowship, chiesa evangelica carismatica di Spindale, in Carolina del nord, spesso accusata di manipolazione dei suoi fedeli e maltrattamenti: i suoi membri sono quasi sempre presenti ai comizi pubblici di Trump. Anche nella religione, in America, l’ex presidente ha avuto una funzione divisiva al punto che non tutti sanno come sarà il futuro: «Io voglio laurearmi ma poi non ho intenzione di restare nello Utah, né tanto mento nella chiesa», ci confessa un ragazzo sottovoce. Non ha voluto nemmeno dirci il suo nome.