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Elezioni americane: la resa dei conti
La corsa alla Casa Bianca vede Harris e Trump in una situazione di sostanziale parità e quindi di estrema incertezza. Quali sono i temi su cui si gioca la partita?
Federico Rampini
Oltre venti milioni di americani hanno già votato recandosi negli appositi seggi elettorali già aperti perché abilitati ad accogliere il voto anticipato; oppure votando per corrispondenza. Ma non sappiamo per chi. Nei sondaggi il vento è cambiato, dopo un periodo favorevole a Kamala Harris c’è stata una risalita di Donald Trump. Sono percentuali modeste, non sconvolgono una situazione di sostanziale parità e quindi di estrema incertezza. «The Economist», che ha un suo modello previsionale basato su indicatori diversi dai tradizionali sondaggi, è passato dal favorire Harris al segno opposto. Mark Penn, che fu a lungo un sondaggista democratico nonché consigliere di Bill e Hillary Clinton, oggi sostiene che Trump è più credibile sui tre terreni che contano cioè inflazione (economia), immigrazione, ordine pubblico e criminalità. Restano tante incognite quali: lo scenario di ricorsi e contestazioni post-scrutinio; la possibilità che un partito conquisti la Casa Bianca ma non la maggioranza al Congresso per cui avremmo una presidenza dimezzata. Al cambio di segno nei sondaggi corrisponde un nuovo tono nella campagna Harris. La vicepresidente all’inizio aveva impostato una campagna positiva, ottimista: si era detta la candidata della «gioia», si era presentata come portatrice di cambiamento, aveva promesso di rilanciare il «sogno americano» di una società ricca di opportunità per tutti. Ora il tema dominante è diventato la minaccia che corre la democrazia americana, Trump è stato definito apertamente un fascista o aspirante dittatore. Definire Trump un fascista può sembrare legittimo, visto il disprezzo per la democrazia che lui mostrò il 6 gennaio 2021. Ma per collocare l’accusa di fascismo in una giusta prospettiva, è utile leggere un editoriale del «Wall Street Journal». È un quotidiano schierato a destra ma rappresenta l’anima tradizionale del partito repubblicano, non quella attuale. Ha una linea conservatrice, liberista e anti-trumpiana. Per esempio, si è sempre opposto a Trump su tre temi qualificanti: immigrazione, dazi, Putin-Ucraina. Ecco alcuni estratti dell’editoriale.
«Diamo per scontato che ci sono molte ragioni per temere un ritorno di Trump al Governo. Il suo linguaggio è spesso volgare e divisivo. I suoi elogi a personaggi come Vladimir Putin e Xi Jinping sono offensivi. Il suo tentativo di ribaltare il risultato elettorale nel 2020 fu sciagurato. Il nostro giornale aveva indicato di preferire ogni altro candidato repubblicano al posto suo. Ma nonostante tutto ha vinto la nomination per la terza volta, avrebbe vinto contro Biden, è in parità con Harris. Forse decine di milioni di americani sono favorevoli a un colpo di Stato fascista? La verità è che la maggioranza degli americani non crede ai meme sul fascismo, e ha delle buone ragioni. La prima è nella storia del primo mandato Trump. Fu ostacolato dai contropoteri e bilanciamenti del sistema istituzionale americano. L’opposizione, la stampa, la burocrazia federale contrastavano i suoi atti, e lo farebbero anche in futuro». In quanto alle minacce di Trump di usare la polizia e perfino le forze armate contro i propri oppositori, il «WSJ» ricorda che lui ha precisato di riferirsi agli estremisti che ricorrono alla violenza di piazza. «Qualsiasi intenzione lui abbia – prosegue l’editoriale – dovrà vedersela con gli ostacoli insiti nelle istituzioni americane. Gli stessi giudici da lui nominati respinsero le sue accuse sui brogli elettorali, e i repubblicani bloccarono i suoi tentativi di sovvertire il risultato. Noi abbiamo fiducia che la Corte suprema, le forze armate, il Congresso, impediranno qualsiasi attentato alla Costituzione». Quindi il giornale torna sulle ragioni per cui la maggior parte degli americani non considerano Trump una minaccia unica contro la democrazia: «Perché hanno visto i democratici calpestare ogni sorta di regole pur di sconfiggerlo». L’editoriale ricorda la bufala del Russiagate nel 2016, un castello di menzogne fabbricate dallo staff di Hillary Clinton. I tentativi di far fuori Trump attraverso i processi, con il procuratore generale di New York che fece la sua campagna elettorale «promettendo di trovare qualcosa, qualsiasi cosa, pur di incriminarlo».
«È stato sovvertito così un principio fondamentale della giustizia americana. I democratici dicono esplicitamente di voler compromettere l’indipendenza della Corte suprema imponendole nuove regole. Vogliono abolire la maggioranza qualificata nelle votazioni al Senato: questa secondo noi è una minaccia alla Costituzione più grave di qualsiasi cosa Trump sia in grado di fare». La conclusione: «La paura del fascismo sarebbe più credibile se i democratici non abusassero del potere. Se perdono quest’elezione contro Trump, visti i suoi difetti, non sarà perché lui è un aspirante Mussolini. La ragione sarà il bilancio del governo Biden-Harris». Non occorre concordare con il «Wall Street Journal». Ma la lettura di questo editoriale serve a capire perché un’America anti-trumpiana osserva con fastidio la retorica antifascista. C’è un elefante nella stanza: la situazione delle finanze pubbliche in degrado, il tema ignorato da entrambe i candidati. Eppure il rapporto deficit/Pil negli Stati Uniti viaggia verso il 7%, un livello che sarebbe intollerabile nell’Unione europea. Il debito/Pil è al 100%. Certo il Tesoro di Washington ha il privilegio «imperiale» di stampare una moneta che tutti vogliono. E l’economia reale scoppia di salute, una copertina dell’«Economist» l’ha definita «oggetto d’invidia da parte del mondo». Tant’è, sia Harris sia Trump promettono cose che costeranno care, in termini di nuovo deficit o nuove tasse, ma l’opacità dei conti domina. Su due altri fronti le cose sono più chiare: protezionismo e immigrazione. I dazi sono un tema in cui le conseguenze sull’Europa possono essere profonde. I democratici si sono spostati verso le posizioni di Trump. Condannarono nel 2017 i suoi dazi sulle importazioni cinesi; una volta al potere li hanno aumentati. Il protezionismo ormai è bipartisan. Però le distanze tra Harris e Trump ci sono. L’ex presidente repubblicano minaccia dazi su tutti, non solo sulla Cina. La vicepresidente democratica sarebbe più gentile con gli alleati.
In quanto alla politica migratoria: la sinistra ha cavalcato a lungo delle ideologie radicali, vedi i programmi «no border» di Alexandria Ocasio Cortez che includevano l’eliminazione della polizia di frontiera. Harris quattro anni fa era allineata su quegli slogan e voleva depenalizzare il reato d’immigrazione clandestina. Oggi Harris ha fatto dietrofront anche su questo terreno. La stessa base democratica percepisce l’immigrazione clandestina come un fenomeno dannoso e destabilizzante. Harris ne prende atto e promette una politica dura di controllo alle frontiere. Questa non preclude che l’America continui ad assorbire stranieri: a condizione che rispettino le modalità legali per ottenere il permesso di soggiorno, e quindi con un controllo sui flussi, sulla loro composizione, sul tipo di forza lavoro che viene ammessa. È molto diverso da quello che abbiamo visto accadere alla frontiera negli ultimi anni.