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L’operazione (ri)lancio di Kamala Harris

Le novità nella sconcertante corsa alla Casa Bianca in un Paese in bilico tra decadenza e segnali di vitalità
/ 29/07/2024
Federico Rampini

Un candidato, già condannato in tribunale, ha rischiato di morire assassinato, in un episodio segnato dal crollo di efficienza dei Servizi segreti americani. L’altro candidato ha gettato la spugna dopo un lungo assedio per sospetta incapacità. Un partito – il Democratic Party – deve reinventarsi la campagna elettorale a tre mesi dal traguardo. La nuova candidata, Kamala Harris, emerge da un lungo periodo nell’ombra, circondata a sua volta da dubbi sulla sua competenza. I livelli di popolarità di tutti sono ai minimi storici. La stima per il Governo e il Parlamento è debole. A chi appartiene questo disastro? Chi si prenderà la guida di una delle Nazioni più potenti della Terra, mentre nel mondo divampano due guerre dalla portata globale? Potrà la «novità Harris» guarire l’America da sintomi di decadenza così gravi?

La campagna elettorale del 2024 esibisce tutti i difetti degli Stati Uniti, a cominciare dal male oscuro che affligge la più antica liberaldemocrazia: l’erosione della fiducia nelle istituzioni e l’assenza di uno spirito di unità nazionale. A sinistra come a destra prevale il parere che «l’America è sulla strada sbagliata». Eppure è la più antica Repubblica federalista nella storia, un sistema presidenziale spesso incompreso, con bilanciamenti e contropoteri che in passato hanno salvato questa democrazia da minacce tremende. Ivi compreso dopo il 6 gennaio 2021: l’assalto traumatico a Capitol Hill ebbe un «happy ending» sottovalutato nei suoi significati. Il sociologo Robert Putnam ha inventato un gioco a sorpresa. Comincia con un quadro raccapricciante di tutte le patologie americane: diseguaglianze, polarizzazione politica, razzismo, tensioni sull’immigrazione, corrosione della democrazia.

Quando i lettori si sono convinti di avere di fronte una descrizione dell’America di oggi, arriva la sorpresa: quel testo è una sintesi di analisi diffuse tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento. Cioè un’era che fu seguita dal massimo progresso americano in tutti i campi: dall’economia alla giustizia sociale, dai diritti umani all’istruzione, fino alla costruzione di una leadership planetaria. Un esercizio simile si può fare rivisitando gli anni Sessanta del Novecento. Nei nostri ricordi sono associati a grandi movimenti progressisti: i diritti civili dei black, il pacifismo, il femminismo, la liberazione gay, l’ambientalismo, le lotte studentesche, i «figli dei fiori», una esplosione di creatività artistica. Nella realtà gli anni Sessanta furono segnati dalla violenza, politica e non; da una guerra perduta; dalla convinzione di un declino nazionale, che peraltro molti americani giudicavano meritato. Di nuovo, dopo quel periodo tormentato l’America sorprese il mondo con una rinascita e una lunga catena di successi: gli anni Ottanta furono ricchi di trionfi economici, tecnologici, culturali. Fino alla vittoria nella guerra fredda contro l’Unione Sovietica. La storia non è destinata a ripetersi. Quei precedenti devono però consigliarci prudenza prima di emettere sentenze definitive sul collasso dell’America e sulla decomposizione della sua democrazia.

Sulle ragioni profonde che stanno dietro l’egemonia americana che cosa ci dice, per esempio, l’immigrazione? Che l’America vista dal Grande sud globale sta molto meglio di quanto pensino i suoi critici. È una terra non solo di benessere materiale ma anche di libertà e diritti (compreso quello di accusarla di ogni male). I tanti aspiranti al «sogno americano» – compresi i giovani cervelli europei in fuga – vi trovano ancora opportunità migliori, grazie a una fiducia nell’impresa e nel mercato che nei Paesi d’origine è soppressa da burocrazie o dispotismi. Nonostante i segnali attendibili che questo ventunesimo sia destinato a diventare il «secolo asiatico», è dalla Cina e dall’India che si continua a emigrare verso gli Stati Uniti, non viceversa.

I segni di un decadimento americano sono reali, concreti, preoccupanti: in primo piano salute e longevità; peggioramento dell’istruzione. Alcuni sono legati tuttavia proprio all’immigrazione, che abbassa sistematicamente le medie dei residenti. Sono compensati da altrettanti segni di vitalità: innovazione a ciclo continuo; dinamismo economico; capacità di cooptare le élite degli altri Paesi, inclusi i «nemici». Il sintomo più preoccupante è il crollo di autostima, ai massimi tra le nuove generazioni. Però qualcosa di simile accadde anche all’inizio del Novecento, poi durante la Grande depressione; e ancora negli anni Sessanta-Settanta. In questa campagna elettorale del 2024 è quasi impossibile trovare un punto di unità «valoriale» tra destra e sinistra, salvo una pragmatica convergenza sulla difesa contro la Cina e sulla necessità di reindustrializzare il Paese. Però c’è un principio che unisce davvero i repubblicani e i democratici: la convinzione che il ruolo dell’America nel mondo dipende dalla sua forza interna, dalla sua capacità di curare sé stessa. È possibile, forse è verosimile, che il peso dell’America nel mondo sia destinato a diminuire inesorabilmente. In fondo, è eccezionale: questa nazione di 350 milioni esercita in molti campi un’influenza sproporzionata su un pianeta di 8 miliardi. Gli americani sono appena il 3,5% degli abitanti del pianeta. Neppure ai tempi dell’Impero romano c’era uno squilibrio così vistoso, un’influenza di così pochi su così tanti. Di fronte a questo dato – che dura da un secolo – si può essere ammirati o irritati, stupefatti o indignati: mai indifferenti.

Ora questa sconcertante campagna elettorale è entrata in una fase nuova. Riassumo i cambiamenti più significativi. Il fattore vecchiaia smette di essere un problema per i democratici e di colpo lo diventa per i repubblicani; anche se la grinta dimostrata da Trump in occasione dell’attentato è una risposta efficace ai dubbi sulla sua età. È cominciata subito la «costruzione di Kamala Harris». Il tempo stringe, il Partito democratico deve ripensare tutta la campagna elettorale nell’ultimo rettilineo prima del traguardo. Un traguardo che arriva in anticipo sul 5 novembre: alcuni Stati permettono il voto per corrispondenza già a fine settembre. Ma l’operazione «lancio di Harris» (o rilancio, reinvenzione, visto che i tre anni e mezzo da vice non sono stati un trampolino di popolarità per lei) ha tante ragioni per riuscire. I democratici hanno dalla loro parte la maggioranza dei media e dei social; hanno molti più soldi da ricchi donatori; hanno la macchina di potere della Casa Bianca.

Già si nota che il tono della stampa verso Harris è cambiato. Gli stessi opinionisti che fino a poco tempo fa invocavano altri candidati sottolineando i limiti della vice presidente, si stanno allineando nel coro di elogi e ammirazione verso colei che può diventare la prima donna presidente degli Stati Uniti. Il compito di Harris è meno tremendo di quanto possa apparire. La stragrande maggioranza degli americani dà un voto «di appartenenza», ha già deciso a priori da che parte sta, a prescindere dal candidato. Spesso è anche un voto «contro» l’avversario più che in favore del proprio candidato. Tra le due grandi famiglie politiche i travasi di voti sono rari, lenti, limitati. Harris, per il solo fatto di essere quella che è, e di appartenere a quel partito, parte già con una maggioranza di consensi tra le donne, tra i giovani, tra i black. Deve solo riuscire a ripetere il piccolo exploit (sottolineo piccolo) che Biden riuscì a compiere nel 2020 quando seppe arginare in parte la frana di consensi dalla classe operaia verso i repubblicani.