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Ecco cosa succede se ritorna Donald Trump
Negli Stati Uniti, mentre Joe Biden dà prova della sua incapacità, il tycoon resta il favorito nella corsa alle elezioni del 4 novembre
Lucio Caracciolo
Chi comanda oggi negli Stati Uniti? Il mondo ha scoperto che il presidente Biden non è più padrone di sé e non è in grado di esercitare una funzione così strategica come quella di comandante in capo delle Forze armate americane. Stranamente il dibattito scatenato dopo le prestazioni di Biden in Europa e nel dibattito televisivo con Trump verte solo sulla sua candidatura alla Casa Bianca. Ma le elezioni sono fra quattro mesi e dopo il voto, comunque vada, Biden resterà in carica fino al 20 gennaio 2025. Sarebbe quindi logico occuparsi prima di come gli Stati Uniti possano fare a meno del loro presidente per altri sei mesi. Il caso ha dei precedenti. L’ultimo dei quali riguarda la presidenza di Ronald Reagan. Nell’ultimo biennio (1987-88) del suo secondo mandato Reagan dava segni abbastanza evidenti di incapacità a esercitare le sue funzioni. All’epoca quindi fu il vicepresidente George Herbert Bush a organizzare un gabinetto parallelo, da lui diretto, in cui i rami principali dall’amministrazione erano rappresentati per evitare che Reagan potesse, involontariamente, compromettere il suo Paese. Specialmente per quanto riguardava il vitale rapporto con l’Unione Sovietica e la questione degli armamenti strategici che a un certo punto Reagan immaginava potessero essere completamente aboliti. Altri tempi. Oggi al posto che fu di Bush padre, che poi sarebbe salito alla presidenza, c’è la signora Kamala Harris. È giudizio diffuso che non abbia le qualità per prendere il posto di Biden in caso di urgenza. Allo stesso tempo, sarebbe molto improbabile sostituirla perché in quanto donna e rappresentante di una minoranza etnica parrebbe politicamente scorretto.
Il fatto che il caso Biden sia trattato nel modo arruffato e superficiale che possiamo ogni giorno constatare rivela la profondità della crisi americana. A novembre, se Biden sarà lasciato al suo posto, si scontrerà con un avversario che tentò un colpo di Stato eccitando l’assalto al Congresso e che è un mentitore seriale riconosciuto. Alternativa del diavolo. Eppure sembra che nessuno riesca a sbrogliare la matassa. E qui intervengono fattori tipicamente americani. I cittadini americani non sono specialmente portati a occuparsi di politica, salvo forse durante gli ultimi mesi di campagna presidenziale. Inoltre non esistono veri e propri partiti ma solo comitati elettorali largamente dipendenti dai finanziatori. Il destino di Biden o di chiunque altro voglia candidarsi dipenderà dalla predisposizione dei fundraiser a rifornire il pretendente. Per capire come evolverà quindi la partita sulla candidatura la cosa più semplice è seguire i flussi di denaro. Il fatto che quelli diretti a Biden siano declinanti è già un buon indicatore.
Esistono alternative al presidente in carica per le elezioni del 4 novembre? Teoricamente sì. Il nome più gettonato è quello di Michelle Obama, che però non ha nessuna voglia di buttarsi in politica. Anche perché con il marito già presidente ha firmato contratti plurimilionari per libri, conferenze e una serie Netflix. Fra i competitori in campo democratico spiccano due governatori come Gavin Newsom e Gretchen Whitmer che però non sono troppo conosciuti al di fuori rispettivamente di California e Michigan. Inoltre, piuttosto che rischiare di essere asfaltati da Trump in autunno, preferiscono tenersi di riserva in vista della sfida presidenziale del 2028. Non dimentichiamo che il 4 novembre si vota anche per il rinnovo di gran parte del Congresso. Essendo quasi scontata la vittoria di Trump nella corsa alla Casa Bianca, i democratici potrebbero puntare sul controllo del Senato e della Camera. Molto difficile, ma tentabile. Una sorta di coabitazione all’americana che limiterebbe le velleità di Trump e riequilibrerebbe il sistema. La vera partita in caso di vittoria trumpiana sarà però quella che riguarda i cambiamenti nell’amministrazione e nello Stato profondo. L’esperienza del primo mandato ha convinto Trump della necessità di liquidare alcune centinaia se non migliaia di funzionari di medio-alto livello che a suo tempo cercarono, spesso con successo, di frenarne le iniziative più irragionevoli. Da sostituire con una squadra di fedelissimi – a sé, non all’America. Allacciamo le cinture.
Ciò che oggi manca in America è una strategia su come affrontare guerre e sfide, dall’Ucraina a Israele, che mettono in questione il primato a stelle e strisce. È ormai chiaro che le principali cancellerie, occidentali e non, hanno integrato nelle proprie equazioni il ritorno di Trump alla Casa Bianca. E cercano di adattarsi a quelli che potranno essere gli atteggiamenti del nuovo vecchio presidente, noto per la sua imprevedibilità. Chi osserva che Putin sarebbe avvantaggiato dal cambio Biden/Trump dimentica questo fattore. E omette che in ogni caso il ritorno del tycoon al timone della superpotenza provocherà sconquassi domestici di dimensioni imprevedibili. Una crisi di legittimità del potere americano significa disordine sicuro su scala mondiale.