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Uno strumento per analizzare la parità salariale
Sul piano nazionale è l’Ufficio federale per l’uguaglianza fra donna e uomo (UFU) a promuovere l’uguaglianza di genere in tutti gli ambiti della vita e a lottare contro le discriminazioni in questo ambito. «La parità salariale resta uno dei temi prioritari anche nel 2024», leggiamo nel sito dell’UFU. Nel 2023 l’UFU ha coordinato 280 misure del piano d’azione della Strategia Parità 2030; ha effettuato 162 consulenze in materia di analisi della parità salariale; 30 verifiche della parità salariale presso aziende che si sono aggiudicate appalti pubblici; 145 prese di posizione nell’ambito delle procedure di consultazione degli uffici;14 risposte a interventi parlamentari. Ha inoltre erogato complessivamente 3,1 milioni di franchi per la promozione dell’uguaglianza tra donna e uomo nella vita professionale ed ha stanziato 2,5 milioni per la prevenzione e la lotta alla violenza. «Lo sviluppo e la messa a disposizione di strumenti di qualità per l’analisi della parità salariale (Logib) sono parte integrante della Strategia Parità 2030. Con Logib sistema salariale, lo strumento di analisi della parità salariale è stato ampliato per includere la funzionalità per la creazione di un sistema di funzioni e salari semplice e neutro rispetto al genere». / Red.
Dai malus maternità alle micro aggressioni
Parità sul lavoro: nell’ultimo anno clima ancora peggiorato per i diritti delle donne. Anche in Svizzera
Marialuisa Parodi
Il 14% delle intervistate per un recente studio globale di Deloitte, denuncia che, nel proprio Paese di origine, i diritti femminili hanno subito un deterioramento nell’ultimo anno. Il diritto ad un salario equo, a vivere senza violenza ed ogni progresso in ambiti come l’accesso sicuro alla sanità e l’autonomia finanziaria, per esempio, appaiono ostaggio di una situazione di contraccolpo, cui vanno ascritti anche i comportamenti ostili, aggressivi e intimidatori che mirano a screditare, interrogare e respingere le conquiste fatte.
Lo studio 2024, quarto di una serie, ha coinvolto 5000 donne di 10 Paesi (Australia, Brasile, Canada, Cina, Germania, India, Giappone, Sud Africa, Regno Unito, USA), con l’obiettivo di monitorare l’esperienza sul luogo di lavoro e gli ostacoli, interni ed esterni all’azienda, che minano le opportunità di crescita professionale.
Il quadro non è incoraggiante e mostra che, nel luogo di lavoro, tende a riprodursi lo stesso suddetto contraccolpo contro l’eguaglianza di genere; vi si assiste un po’ ovunque ma, con più virulenza, dove la politica ha assunto toni di difesa ad oltranza di privilegi storici e tradizionali.
«Dio mi sta bene e anche la patria e la famiglia», sembra abbia detto Margherita Hack, «ma è il trilogismo Dio-Patria-Famiglia, che non mi sta più bene». Di certo, non ha mai portato nulla di buono alle donne e alle minoranze.
Sulla natura degli ostacoli che penalizzano l’esperienza lavorativa femminile, Deloitte offre una panoramica che non si discosta, semmai piuttosto aggrava, quanto già sappiamo: persistono il malus maternità e la sproporzione del carico di conciliazione, con obblighi domestici e di cura sempre più estesi anche verso altri familiari adulti; né sembrano ridursi le micro aggressioni, quell’insieme di atteggiamenti, comportamenti ed espressioni verbali, consci o inconsci, che comunicano ostilità, svilimento ed esclusione, provocando impatti devastanti sulla sicurezza psicologica (e, in ultima analisi, sulla produttività, cui si cerca di far fronte con un ennesimo, iniquo, sforzo, finendo in un circolo vizioso). C’è poi la questione della salute mentale, troppo spesso stigmatizzata, con carichi di lavoro e complessità organizzative sempre più fonte di stress e burnout.
La situazione svizzera presenta molte analogie: anche da noi, le donne sono più esposte ai rischi psicosociali e riportano con più frequenza disturbi fisici e stati d’animo negativi. La parte di gap salariale prettamente discriminatoria è inchiodata da anni ad oltre il 40%. Il lavoro casalingo non remunerato è sempre svolto prevalentemente dalle donne (anche quando il partner è occupato a tempo parziale o non occupato affatto!), così come il caregiving, in crescita esponenziale.
Ciononostante, molte agende politiche hanno perso slancio nel tematizzare le discriminazioni di genere e, quantunque non dichiaratamente ostile ai principi di parità, anche l’austerità sta producendo, nei fatti, tagli di spesa pubblica decisamente diseguali sul piano dell’impatto su uomini e donne.
E le aziende? Come procedono le iniziative di diversità, equità e inclusione (DEI), di cui molto si parla, anche quale declinazione della responsabilità sociale di impresa e dello sviluppo sostenibile?
L’argomento è di particolare attualità negli Stati Uniti.
L’impegno formale e sostanziale dei datori di lavoro a favore dell’inclusione, che in quella realtà riverbera molto sull’aspetto razziale, oltre che di genere, raggiunse l’apice nel 2020, dopo l’assassinio di George Floyd. Un impegno, va precisato a scanso di equivoci, sostenuto da robuste evidenze scientifiche sulla migliore profittabilità delle aziende inclusive e chiara premialità rilevata anche negli andamenti di borsa.
Ma la decisione della Corte Suprema di un anno fa, dichiarando incostituzionali le azioni positive per favorire le minoranze razziali nell’accesso alle università, ha riflesso il cambiamento e la polarizzazione del clima politico. Risultato: molte aziende sono state confrontate con azioni legali da parte di chi si sente discriminato – e qui sta il paradosso del privilegio – dalle misure volte a parificare le opportunità dei gruppi socio-demografici storicamente marginalizzati.
Gli attacchi pubblici di personaggi come Elon Musk, Donald Trump, Bill Ackman o Xavier Milei si commentano da sé e confermano che i riflettori di una certa parte politica si sono accesi non appena realizzato che lo slancio verso i piani d’azione DEI rappresenta una delle più potenti campagne per i diritti civili dell’ultimo decennio.
Volenti o nolenti, le aziende virtuose hanno immediatamente dovuto mettere in conto il rischio legale e, quindi, opportunisticamente operato una sorta di rebranding delle misure DEI nei documenti ufficiali: la diversità si è trasformata in unicità o ha abdicato a favore delle più ecumeniche inclusione o cultura inclusiva; dai target dei bonus legati al raggiungimento di risultati DEI (che si stima riguardino tra il 35 e il 40% delle grandi società quotate) l’obiettivo quantitativo delle quote, ormai impopolare, si è tramutato in più generici traguardi di leadership inclusiva o in altre formule qualitative, come la responsabilità di creare una cultura aziendale di appartenenza, dove le persone si sentano al sicuro, incluse e valorizzate.
A prescindere dalla creatività semantica volta a centrare il bersaglio mobile del politically correct, ciò che è incoraggiante oggi osservare è una salutare scrematura. Da una parte, giungono al capolinea i piani confusi da pink, black e rainbow-washing; dall’altra, si intensificano gli sforzi di chi valuta il potenziale di questi programmi quale risposta a valori etici e fonte di preciso vantaggio competitivo.
Lo rivelano numerose indagini, per esempio quella svolta dal think tank americano Conference Board: oltre il 60% delle aziende intervistate intende moltiplicare l’impegno DEI (o comunque lo si voglia rinominare) perché ritiene urgente riuscire ad attrarre forza lavoro sempre più diversificata.
E qui giungiamo al nocciolo della questione: rispetto al passato, le nuove generazioni di lavoratori e lavoratrici (queste ultime, val la pena ricordare, in porzione ragguardevole e molto formata anche in Svizzera) si sentono pienamente legittimate a dare segnali molto chiari su cosa si aspettano da un datore di lavoro in termini di pari opportunità, rispetto ed equilibrio vita-cura-lavoro; trascurare il loro potere contrattuale, di fronte all’incombente pensionamento in massa dei baby-boomer, può rivelarsi un errore fatale, ad ogni latitudine.
Ma non solo. Secondo un recentissimo sondaggio Washington Post-IPSOS, 6 americani su 10 sostengono l’impegno delle aziende e apprezzano i programmi DEI per il loro impatto sull’inclusione delle persone con disabilità, le minoranze etniche, le comunità LGBTQ+ e le lavoratrici (ogni commento sul posizionamento delle donne in fondo alla classifica è superfluo, visti i risultati dello studio Deloitte).
E in Svizzera? Il mercato non è altrettanto maturo e la variabile di genere, ancorché di gran lunga la più rilevante in termini socio-demografici, non ha mai guadagnato vera centralità delle strategie aziendali anti-discriminazione (se non nel caso di grandi multinazionali, che hanno talvolta importato le buone pratiche sviluppate altrove).
Ma chi arriva dopo, si sa, trae spunto e vantaggio dalle esperienze precedenti e, a giudicare dalla folta schiera di aziende che, per la prima volta, hanno sfilato orgogliosamente al fianco delle comunità queer al Pride di Zurigo del 17 giugno scorso, qui da noi il tema corporate dell’inclusione sembra affacciarsi già nutrito di molteplici sfaccettature.
Significa che i diritti incompiuti delle lavoratrici verranno nuovamente offuscati da altre istanze?
Non necessariamente: le buone pratiche di inclusione non hanno colore, né segno, sono trasversali e ne beneficiano tutte e tutti; a condizione che siano attivate nella genuina convinzione che sia giusto, liberatorio e proficuo disfarsi delle gabbie del privilegio, avendone ben chiare le origini e le categoria di appartenenza.