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Se dal cielo piovono bombe di spazzatura
Attacchi non convenzionali da parte nordcoreana mirano a spaventare la popolazione del sud e a creare disagi. La situazione nei villaggi di Tongil-Chon e Daeseong-dong, con la riaccensione degli altoparlanti di propaganda
Giulia Pompili
Nel villaggio sudcoreano di Tongil-Chon tutto ruota attorno alla soia. Ci sono decine di campi di coltivazione di semi, germogli, fagioli, ma da queste parti con i legumi tipicamente asiatici si produce di tutto: dalla pasta ai liquori fino al gelato. In particolare solo qui si raccolgono i fagioli Jangdan, famosi ed esportati in tutto il mondo. A venire a mangiare qui, tra le botti di terracotta che conservano i preziosi frutti del raccolto, sono soprattutto i turisti locali. In coreano, Tongil-Chon significa letteralmente «villaggio della pace», e si trova più o meno a quattro chilometri e mezzo di distanza da Panmunjom, l’insediamento della Joint Security Area sulla linea di confine tra Corea del Nord e Corea del Sud dove fu firmato l’armistizio nel 1953 – quello che mise fine ai combattimenti della Guerra di Corea. In Corea del Sud, Tongil-Chon è famoso per essere un luogo dove le tradizioni agricole sono rimaste invariate per decenni, lontano com’è dalla modernizzazione e soprattutto dall’inquinamento attorno alle aree più abitate e industrializzate sudcoreane.
Il motivo è che per arrivarci bisogna passare un check point: appena attraversato il ponte Tongil, i soldati fermano le auto e i pullman dei tour organizzati – la maggior parte delle persone in Corea del Sud si affida a visite turistiche di gruppo – controllano i documenti, le autorizzazioni, e se tutto va bene si può proseguire secondo però delle regole molto restrittive per quanto riguarda le riprese e le fotografie autorizzate. Se si è in visita si può stare soltanto per poche ore. Passato il check point, infatti, si entra ufficialmente nella Zona di controllo civili, l’area creata con l’armistizio del 1953 che serve da cuscinetto alla Zona demilitarizzata, quella che segna invece l’effettivo confine fra Corea del Nord e Corea del Sud. Gli abitanti di Tongil-Chon non superano le quattrocento persone e sono abituati a essere controllati speciali, circondati da militari: questa è l’unica cittadella civile dell’area di confine.
Da queste parti, fino a poco tempo fa, nessuno avvertiva «la minaccia nordcoreana», e la vita andava avanti piuttosto tranquilla. Poi sono iniziati i lanci d’immondizia. Di recente alcuni sacchetti pieni di spazzatura, legati a decine di palloni aerostatici lanciati dalla Corea del Nord, sono finiti su diverse automobili nelle province sudcoreane, a volte danneggiandone il parabrezza o la carrozzeria. Molti dei palloni non sono riusciti a superare il confine, altri sono caduti in mare, ma parecchi hanno centrato l’obiettivo, più psicologico che concreto: aumentare la pressione sulla Corea del Sud e sui suoi cittadini. Tutto è iniziato un paio di settimane fa, quando nella penisola coreana era la notte fra il 23 e il 24 maggio. Almeno centocinquanta palloni aerostatici sono partiti dalla Corea del Nord per attraversare il confine sud: a ognuno di essi è stato attaccato un sacchetto di spazzatura, plastica usata, letame ed escrementi anche umani. È un aspetto della guerra cognitiva da parte nordcoreana, che serve a spaventare la popolazione, creare disagi, e per chi vive sul confine ha una conseguenza molto concreta.
La mattina del 24 maggio scorso gli abitanti di Tongil-Chon, come quelli di tutta la provincia di Gyeonggi, si sono svegliati con un messaggio d’emergenza sui propri smartphone: imminente attacco aereo, diceva l’alert. Nessuno poteva prevedere, tantomeno il comando delle Forze armate sudcoreane, che i palloncini aerostatici fossero pieni di spazzatura. Avrebbero potuto essere piccole bombe, o parte di un attacco chimico o biologico. Nei giorni successivi ci sono state diverse polemiche per la tensione che si respira in quest’area di confine, come se le politiche del Governo centrale a Seul, guidato dal presidente conservatore Yoon Suk-yeol, stessero aumentando la pressione da parte di Pyongyang, la capitale nordcoreana dove vive la leadership del dittatore Kim Jong Un.
Oltre a Tongil-Chon, nell’area sul 38° parallelo esiste un altro villaggio, altrettanto simbolico: si chiama Daeseong-dong, che significa letteralmente «villaggio della libertà», ed è l’unico insediamento sudcoreano all’interno della Zona demilitarizzata, cioè a poche centinaia di metri dal confine con il Nord. È un paesino di poco più di centotrenta anime, che hanno uno status molto speciale: non pagano le tasse e non fanno il servizio militare. Il «villaggio della libertà» è un simbolo costruito appositamente per allentare la tensione, e ha un gemello in territorio nordcoreano, a poche centinaia di metri in linea d’aria. Da ormai qualche mese visitarlo, anche per un giornalista straniero, è impossibile. Chi ci è stato di recente ci racconta che da Daeseong-dong si possono ascoltare perfettamente gli altoparlanti di propaganda, che sono stati riaccesi da entrambe le parti dopo che la cosiddetta «guerra dei palloncini» si è fatta più intensa. Al Sud vengono fatti partire per qualche ora al giorno, e mandano a tutto volume musica K-pop e notizie positive sulla Corea del Sud, solitamente descritta come l’impero del male dalla propaganda del Nord. Gli altoparlanti sono un strumento di guerra psicologica dell’epoca della Guerra fredda, «sentirli di nuovo, dopo che erano stati spenti così a lungo, mette un po’ d’angoscia», ci spiega una donna di Tongil-Chon.
I residenti del villaggio sono per lo più anziani, e sono quelli che tornarono qui nel 1973, quando il Governo di Seul autorizzò alcune famiglie a venire a vivere nei luoghi da cui erano state evacuate vent’anni prima durante la guerra. L’idea di un villaggio dell’unificazione civile pare fosse venuta all’allora presidente autoritario Park Chung-hee, pensando ai kibbutz israeliani. Oggi quasi tutti fanno gli agricoltori, ma ci sono anche alcune famiglie che vivono qui perché lavorano nei servizi per turisti nella Zona demilitarizzata, per esempio all’osservatorio Dora, dove una terrazza e diversi cannocchiali permettono ai visitatori di guardare più da vicino la Corea del Nord. Il Governo della provincia di Gyeonggi assicura loro una scuola (anche se, ci spiegano, i bambini sono sempre meno), una chiesa e il resto dei servizi essenziali. Ma da questa bolla a metà tra la Guerra fredda e la vita rurale chi può adesso va via, e dopo l’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia e l’avvicinamento al Cremlino del regime di Pyongyang, sono sempre di più le persone che vogliono farlo.
Qualche anno fa, con la cosiddetta «Sunshine policy», la politica di riavvicinamento tra le due Coree, il turismo è letteralmente esploso: una signora che gestisce i pasti al Jangdan Bean Village, sulla strada verso Paju – la città più grande e più vicina al confine col Nord – ci spiega che fino a prima della pandemia non riuscivano a star dietro a tutte le prenotazioni di gruppi turistici di passaggio. Adesso sono in seria difficoltà. Le aree della Zona demilitarizzata aperte al turismo sono sempre meno, e la provincia di Gyeonggi sta cercando di indirizzare i visitatori verso Camp Greaves, che per decenni è stato il campo base della 506ª Divisione di fanteria americana a protezione dei confini sudcoreani, restituito al Governo di Seul nel 2007. Qui, a un paio di chilometri dalla Zona demilitarizzata, i sudcoreani hanno costruito un ostello della gioventù e una zona dedicata all’arte e alla pace, dentro agli hangar che un tempo contenevano le munizioni e il deposito dei carri armati, pronti a partire in caso di attacco. Anche qui, di recente, è piovuta dal cielo la spazzatura nordcoreana e dagli altoparlanti una voce non faceva che ripetere: non toccate gli oggetti volanti caduti a terra, chiamate le autorità. Un luogo d’arte e di pace che fa i conti, di nuovo, con il nuovo mondo in bilico con la guerra.