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«È necessario recuperare un senso di comunità»

Le riflessioni di Franco Gabrielli sulle minacce che caratterizzano l’attualità, sulla «guerra ibrida» e sulla crisi dell’idea di Europa unita. L’esperto di sicurezza italiano sarà a Lugano l’8 giugno per un evento promosso dalla Fondazione Spitzer
/ 03/06/2024
Romina Borla

«Nel mondo dei rischi, che ho frequentato per quasi 40 anni, ho imparato una cosa: se non si ha consapevolezza delle criticità è complicato affrontarle e gestirle. Quindi la sottolineatura dei rischi, delle minacce, non deve essere mai vissuta come una sorta di resa incondizionata: “Tutto va male quindi l’unica soluzione è quella di arrendersi o chiudersi nel privato". No. Bisogna essere consapevoli, apprendere dalle esperienze e poi reagire nel miglior modo possibile». A parlare è Franco Gabrielli – delegato per la sicurezza e la coesione sociale del Comune di Milano e Professor of Practice in Public Management at SDA Bocconi – già direttore dei Servizi segreti italiani, capo della polizia, capo dipartimento della Protezione civile italiana, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri e Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica italiana del Governo Draghi. L’8 giugno, a Lugano, parteciperà con l’avvocato Paolo Bernasconi a Gli estremismi che minacciano la democrazia, evento promosso dalla Fondazione Spitzer (www.fondazionespitzer.ch).

Le minacce a cui siamo confrontati sono molteplici, osserva Gabrielli: «In primo luogo la criminalità organizzata, fenomeno ben presente anche se tendiamo a rimuoverlo dalle nostre coscienze. Pensiamo poi alla possibile recrudescenza del terrorismo internazionale di matrice jihadista, allo spettro dell’utilizzo di armi nucleari, alle crisi in Ucraina e nel Mar Rosso, alla guerra in Medio Oriente, alla contrapposizione sempre più forte tra Iran e Israele, alla questione irrisolta tra Repubblica popolare cinese e Taiwan ecc. Da non dimenticare l’inasprimento delle violenze nel Continente africano, area caratterizzata dalla penetrazione non solo economica di Russia, Turchia e Cina. Si tratta di situazioni complesse delle quali ci sovveniamo a corrente alternata, soprattutto in occasione di specifiche tragedie».

Una visione talvolta eccessivamente eurocentrica del mondo – continua il nostro interlocutore – ci ha fatto perdere di vista una certa prospettiva storica. «Noi europei, di una parte significativa dell’Europa, abbiamo vissuto un lungo periodo di pace, tranne la parentesi peraltro particolarmente cruenta dei Balcani che abbiamo archiviato in fretta. Solo lo scoppio della guerra in Ucraina, nel febbraio 2022, ci ha fatto prendere consapevolezza della crudezza del tempo che stavamo vivendo».

Siamo degli esseri con una memoria molto corta, incalza Gabrielli. «Ad esempio in Italia si guarda con angoscia al tema della sicurezza, dimenticando le esperienze traumatiche degli anni 70, 80 e 90. Scordando che le capacità di risposta del Paese affondano le radici in un terrorismo endogeno particolarmente cruento, in organizzazioni criminali che continuano ad avere un’incidenza significativa nel quotidiano. Quindi basta vivere l’oggi con angoscia, come se nulla fosse avvenuto prima». Allargando lo sguardo, ci accorgiamo che il mondo è in continua fibrillazione, e lo è da sempre.

Detto questo, non significa che la situazione non sia complicata. L’aspetto che più preoccupa l’intervistato non sono le singole minacce ma è piuttosto «il disgregarsi di quel tessuto valoriale che in un qualche modo i visionari di Ventotene avevano tratteggiato nel loro manifesto, l’idea che si potessero creare gli Stati Uniti d’Europa» (il Manifesto di Ventotene è un documento per la promozione dell’unità e solidarietà europea scritto da un gruppo di esuli nel 1941 sull’isola di Ventotene, nel mar Tirreno). Un importante spunto di riflessione in un momento in cui l’Europa è chiamata alle urne per rinnovare il suo Parlamento (dal 6 al 9 giugno).

In questo contesto qual è il ruolo della Svizzera? La Confederazione – dice Gabrielli – è un Paese che ha goduto della neutralità, restando fuori da certe logiche. In ogni caso, attraverso una serie di accordi economici e anche di natura valoriale, ha accompagnato la costruzione dell’Europa. «Ora vive minori criticità rispetto ad altri Paesi del Continente, per ragioni storiche, sociali, economiche e morfologiche. Ma credo che debba prestare attenzione, al pari degli altri, alle evoluzioni di determinati fenomeni: ad esempio le attività della criminalità organizzata o del terrorismo».

Intanto, in quest’Europa in cui è difficile mantenere una visione comune, si diffondono le cosiddette minacce ibride. Ma di cosa si tratta? Si parla di «guerra ibrida» quando, oltre al combattimento armato sul campo, la cosiddetta guerra di attrito, vi è il coinvolgimento di fattori che prima erano considerati esterni al campo di battaglia: come la disinformazione, diffusa soprattutto attraverso la Rete, le armi psicologiche, le ingerenze nella vita economica e sociale di altri Paesi ecc.

Spiega l’esperto di sicurezza: «Il teorico della guerra ibrida, il russo Valery Gerasimov, già tempo fa sosteneva che il nuovo campo di battaglia sarebbe diventato quel mondo che continuiamo in maniera impropria a chiamare virtuale: è molto più reale di quanto crediamo». Quando si parla di minacce ibride ci si riferisce quindi all’utilizzo di mezzi di ogni tipo, in particolar modo di mezzi di propaganda, di risorse digitali e di attacchi cyber, con l’obiettivo di destabilizzare le società e le istituzioni di altri Paesi (armi non convenzionali insomma sfruttate anche in contesti non bellici, pensiamo alla Brexit e alle elezioni americane). «Un certo utilizzo di media e social network condiziona le scelte dei popoli. Da questo punto di vista le società più esposte sono quelle libere, le democrazie liberali, dove principi fondamentali come il diritto di voto libero, la libera informazione, il libero convincimento dei cittadini possono essere messi a rischio».

In parallelo – aggiunge Gabrielli – nel mondo occidentale stiamo assistendo ad una perdita di credibilità delle istituzioni democratiche e dello stesso mondo dell’informazione, del giornalismo. «Ognuno pensa di poter essere fruitore e allo stesso tempo fautore dell’informazione: il cittadino assiste ad un evento e mette subito online le immagini. Vi è una continua rincorsa a diffondere notizie che spesso non sono certificate e validate. Se a tutto questo aggiungiamo il sistema degli algoritmi dei motori di ricerca, la tendenza degli utenti ad uniformarsi alla massa e la perdita del valore del confronto e del dissenso, si arriva ad una miscela esplosiva che spiana il campo alle minacce ibride. Un recente studio dell’Università di Oxford afferma che oltre 80 Paesi utilizzano un sistema di ingerenza nella vita e negli interessi di altre Nazioni. Non parliamo quindi solo di Cina, Iran e Corea del Nord…».

Ma una speranza rimane, sottolinea l’intervistato: «E penso sia nel recupero di un senso di comunità. Nel mondo in cui imperano le community social, bisogna recuperare il senso di comunità reale. Come? Puntando sui valori, sulla coesione, sulla solidarietà, su dialogo, tolleranza e confronto. Non credo ad interventi drastici sul tema della disinformazione. Non credo che azioni censorie, ad esempio online, siano salvifiche. Penso che la risposta sia quella di far crescere dal punto di vista culturale una consapevolezza diversa, con la quale ci si possa riappropriare delle cose per le quali vale la pena vivere. Non tutto insomma è perduto».