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Debolissima Italia

Le crisi belliche mettono in discussione le basi stesse della sicurezza e dello sviluppo
/ 20/05/2024
Lucio Caracciolo

L’Italia è insieme alla Germania il Paese europeo più spiazzato dall’invasione russa dell’Ucraina e dalle sue conseguenze. Rispetto a Berlino, Roma dispone per cultura ed esperienza storica di una molto maggiore adattabilità all’imprevisto, guidata da un talento per la flessibilità piuttosto speciale. Ma la crisi bellica, finora mitigata, mette in questione le basi stesse della sicurezza e dello sviluppo in Italia. Se la partita ucraina e quella mediorientale si prolungheranno per anni, nessuno può scommettere sulla sua leggendaria capacità di gestire per vie informali gli sconvolgimenti geopolitici, sociali ed economici in corso.

Premessa: nelle guerre contemporanee, combattute sul fronte economico a colpi di sanzioni e contro sanzioni, chi è autosufficiente ha un enorme vantaggio. Il principale errore di calcolo da parte di Washington e degli europei è stato di contare sulle sanzioni per piegare Mosca. Ora, la Russia è insieme agli Stati Uniti l’unico Paese al mondo a godere dell’autosufficienza alimentare ed energetica. Questo mette Putin al riparo dagli effetti più gravi della rottura delle relazioni economiche (peraltro non illimitata), soprattutto energetiche, con il mercato europeo.

L’Italia è invece fra i Paesi più esposti ai ricatti o alle fiammate protezionistiche e autarchiche tipiche dei tempi di guerra. È infatti un Paese geograficamente collocato al centro di un mare semichiuso, il Mediterraneo, che risente in modo particolare delle tensioni e dei combattimenti in corso nell’arco che dal Mar Nero si spinge fino al Mar Rosso. Siccome dipende quasi totalmente dalle importazioni per il suo fabbisogno anzitutto energetico e ha bisogno di accedere alle rotte oceaniche per raggiungere i mercati mondiali cui la sua economia votata all’export è legata, le guerre attuali ne mettono in questione interessi vitali. La differenza fra Italia e Francia, per esempio, sotto questo profilo, è strutturale: lo Stivale non ha affaccio atlantico, dunque oceanico, come invece l’Esagono, che dispone fra l’altro, grazie ai possedimenti d’oltremare sparsi in ogni Continente, del più vasto spazio marittimo fra tutte le potenze mondiali.

Sotto questo profilo, i conflitti mediorientali riaccesi dopo Gaza sono percepiti da Roma quali minacce esistenziali. Nella visione geopolitica italiana, lo stretto mare che dal Canale di Suez sfocia nell’Oceano Indiano, al di là di Bab al-Mandab, è «Mediterraneo allargato». Meglio, Medioceano: valvola che connette l’Italia all’Indo-Pacifico, ovvero alle regioni più vibranti dell’economia globale. Così come Gibilterra verso l’Atlantico, dunque gli Stati Uniti, mercato di elezione dell’export tricolore. Non deve quindi stupire che la Marina militare italiana partecipi attivamente alla repressione della minaccia houthi. Anche sparando, ciò che per le abitudini di Roma non è affatto normale. A queste vulnerabilità, che specie sul fronte energetico Roma condivide con diversi Paesi europei, si sommano altre debolezze strutturali.

In primo luogo l’Italia dipende al 100% dagli Stati Uniti per la propria sicurezza in caso di attacco nemico. Lo ha pubblicamente dichiarato il ministro della Difesa, Guido Crosetto, quando ha ammesso che «non siamo in grado di difenderci da soli». Sogni sulla difesa europea a parte, la penisola italiana è tuttora sede del più ampio schieramento militare statunitense in Europa dopo quello incardinato in Germania. Con basi, assetti di intelligence e depositi di bombe atomiche a stelle e strisce che ne fanno un bersaglio per chi volesse colpire le truppe americane in Europa.

Questo problema è oggi moltiplicato dal clima di guerra, che vede fra l’altro l’Italia impegnata sul fronte ucraino via forniture di armi a Kiev e su quello mediorientale nel contrasto agli houthi. Ma se in altri tempi si poteva immaginare – o ci si poteva illudere – che Washington sarebbe intervenuta a sostegno di alleati aggrediti, oggi nessuno ne può essere certo. Il disimpegno non troppo graduale dal teatro europeo per concentrarsi su quello indopacifico in funzione di contenimento della Cina lo conferma.

Infine, ulteriore macro problema: l’Italia sta perdendo popolazione da almeno dieci anni. Oggi è ridotta a meno di 59 milioni. E gli indicatori demo-biologici avvertono che si tratta della popolazione più anziana (47 anni l’età mediana, in crescita) di un continente già stravecchio (42 anni) in confronto al resto del mondo, specialmente dell’Africa (18 anni), da cui l’Italia è separata dallo Stretto di Sicilia. Non occorrono speciali arti socio-psicologiche per stabilire che una popolazione anziana e culturalmente conservatrice – gli italiani restano parte dei privilegiati di quel Nord del mondo che da tempo immemore domina il pianeta – trova difficoltà nel reagire alle sfide. Il tempo erode la flessibilità italiana. Tutto questo dovrebbe spingere gli italiani a rendersi conto che il tempo delle rendite di posizione è scaduto. E che occorre accettare di assumersi responsabilità, anche militari, fino a ieri impensabili. La pace, ormai lo abbiamo capito tutti, non è un diritto umano. È anzi, per parafrasare Renan, plebiscito di ogni giorno.