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Dove e quando

Stranieri ovunque, Biennale di Venezia, ai Giardini e all’Arsenale fino al 24 novembre. Tutti i giorni 11.00-19.00; solo all’Arsenale ve e sa fino alle 20.00.

www.labiennale.org


Una Biennale dedicata al Sud del Mondo

Con il titolo di Stranieri ovunque, quest’anno la rassegna veneziana è curata dall’artista brasiliano Adriano Pedrosa
/ 13/05/2024
Gianluigi Bellei

C’è chi scrive per mestiere, chi per necessità, chi per noia. C’è chi riporta il pensiero altrui, chi ne elabora uno suo, chi riporta unicamente la cronaca spicciola. Infine c’è chi scrive perché è parte in causa. Quest’anno la Biennale di Venezia si intitola Stranieri ovunque. Per uno «strano» caso io sono uno straniero (vengo da Bologna), dipingo (sono un operaio del pennello) e scrivo (dalle scuole medie). Un’occasione unica.

Nel 1983 su questo giornale ho pubblicato un pezzo intitolato Tutti gli operai sono stranieri. Analizzavo il primo tentativo internazionale di definizione del concetto di straniero durante la Conferenza dell’Avana del 1956. Sono state enunciate le basi per definirne l’argomento e, in seguito, regolarne le discipline da adattare alle legislazioni dei singoli paesi. In sintesi, ridurre al minimo la concorrenza degli stranieri con i nativi, razionalizzando e livellando i salari, controllare la sicurezza sociale e accentuare la mobilità. Privilegiare le similarità invece che le differenze e soprattutto integrare l’immigrato nella nuova realtà. H. Tzaut, Capo del segretariato della Commissione consultiva per il problema degli stranieri, scrive che «in Svizzera lo straniero deve conformarsi all’ordine giuridico e sociale stabilito e adattarsi al nostro modo di vivere».

«Restare o andarsene… Gli ho detto di restare quando lui voleva andarsene; gli ho detto allora di andarsene quando lui voleva restare. Gli ho detto di andarsene, lui voleva restare; gli ho detto di restare, lui voleva andarsene». Così canta il narratore cabilo Sliman Azzem.

Vi racconto quindi il mio percorso veneziano.

I Giardini

Iniziamo con una considerazione: dal 2003 a oggi l’affluenza di visitatori alla Biennale è aumentata esponenzialmente anno dopo anno. Nel 2003, con la curatela di Francesco Bonami, i visitatori sono stati 260’000. Nel 2022, curatrice Cecilia Alemani, sono stati 800’000. Considerato lo spropositato numero di addetti ai lavori presenti alla preapertura si suppone quest’ultima una Biennale da record.

Detto questo la facciata del padiglione centrale dei Giardini si presenta molto colorata, satura di immagini. Realizzato dal gruppo brasiliano MAHKU (Movimento dos Artistas Huni Kuin), il gigantesco dipinto racconta la storia di kapewë pukeni (il ponte alligatore). Il passaggio degli uomini fra il continente asiatico e quello americano. Un alligatore si offre di trasportarli in cambio di cibo. Il viaggio è lungo e il cibo diminuisce così gli uomini cacciano un piccolo alligatore tradendo la fiducia del grande alligatore che si inabissa in mare.

Il viaggio inizia con i dipinti del nucleo storico dedicato alle astrazioni e poi dipinti, dipinti, dipinti. Molti naïf, altri semplicemente banali; alcuni però di ottima fattura come quelli di Giulia Andreani (1985) un’artista veneziana che vive a Parigi. La sua opera parte dagli archivi fotografici delle donne per rimuoverli dall’amnesia generale. Acquarelli su carta di grandi dimensioni, precisi dettagliati, in bianco e nero.

Louis Fratino (New York, 1993) dipinge corpi maschili nella loro intimità e tenerezza. Contrappone l’immagine della famiglia tradizionale a quella LGBTQ+ attraverso una figurazione omoerotica come in Kissing my foot: una scena feticista molto delicata. Per la Biennale realizza una serie di opere di grande impatto.

Le sale migliori sono senza dubbio quelle dei ritratti. Citiamo Chua Mia Tee (1931), artista cinese che vive a Singapore. Le sue opere sono forse quelle maggiormente iconiche del Paese, come per esempio Road Construction worker del 1955, un olio su tela che rappresenta un manovale seduto a terra a torso scoperto e a piedi nudi. Si notano le vene delle braccia e le gocce di sudore sul viso. Lo sguardo «struggente quasi a implorare compassione». Affandi (1907-1990) è un indonesiano che inizia a pitturare negli anni Trenta. Durante la Guerra di indipendenza (1945-1950) è attivo nel movimento guerrigliero. Realizza molti autoritratti. Durante una sua personale a Singapore nel 1975 ne crea uno sul posto. Un autoritratto strepitoso con fili gialli, verdi e rossi che formano i tratti del viso. Barrington Watson (Giamaica, 1931-2016) realizza dipinti sulla cultura del proprio Paese. In The Conversation vediamo tre giovani donne in gonna, foulard e camicia dai colori delicati che stanno conversando in una posizione chiastica.

L’Arsenale

All’ingresso dell’Arsenale, come pure nel Bacino Nord, troviamo le sculture al neon di Claire Fontaine che ispirano il titolo della Biennale stessa, Stranieri ovunque, declinato in 53 lingue differenti. Claire Fontaine è un collettivo artistico fondato a Parigi nel 2004. Opera attraverso i suoi due assistenti: Fulvia Carnevale e James Thornhill. Il nome è un richiamo a Marcel Duchamp e al suo orinatoio intitolato Fontaine e a una marca francese di quaderni scolastici. Le scritte al neon derivano dal lavoro di un collettivo anarchico che lottava contro la xenofobia nella Torino degli anni Duemila. Amanda Carniero nel catalogo della Biennale scrive: «l’opera vuole dimostrare che ciascuno di noi può essere, o è stato straniero rispetto a qualcosa o a qualcuno in qualche momento della propria vita».

Nel primo grande salone dell’Arsenale troviamo il lavoro del Mataaho Collective, premiato con il Leone d’Oro 2024. Fondato nel 2012 in Nuova Zelanda è composto da artiste māori che valorizzano le loro tradizioni. Takapau, l’opera premiata, realizzata nel 2022 richiama le stuoie tessute e finemente intrecciate che tradizionalmente vengono usate nelle cerimonie e in particolare durante il parto. Il Takapau celebra la nascita, come transizione fra luce e buio.

Poi una sfilata di dipinti, qualche video e alcune sculture. Da segnalare l’opera di Julia Isídrez (Paraguay, 1967). Ceramista guaraní, propone l’opera Grito de libertad del 2019. Il lavoro di ceramista viene tramandato da madre a figlia e Isídrez realizza dei vasi fantasmagorici a volte barocchi altre austeri.

Il curatore

Curatore di questa Biennale è il brasiliano Adriano Pedrosa. Laureato in legge con master in Arte e scrittura, dal 2014 dirige il Museu de arte de São Paulo in Brasile. Il primo curatore che si identifica come queer, oltre che come straniero. Una volta gli artisti erano ammirati se anarchici o scapigliati, oggi, e lo sarà sempre maggiormente in futuro, sta diventando di moda e fa molto cool dichiararsi queer (strano; che si muove all’interno di diverse sessualità). Il filo conduttore della Biennale è dunque rappresentato dagli artisti migranti (108,4 milioni i migranti forzati nel 2022 secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) e quelli queer, folk, diasporici o outsider.

Due gli elementi prevalenti che caratterizzano gli artisti presenti: l’utilizzo del tessile e i legami di sangue o matrimoniali, soprattutto fra gli indigeni. Una Biennale dedicata per la prima volta al Sud del Mondo che capovolge il paradigma, o la realtà ideale, che l’arte sia unicamente quella occidentale e soprattutto quella che deriva da concetti filosofici che partono dalla Grecia antica per attraversare l’Illuminismo.

Debbo dire che due anni fa presentando il Padiglione Ucraina su queste pagine, mai avrei pensato che la guerra di aggressione russa sarebbe durata tanto. A questo punto ritengo che, al di là della miriade di offerte artistiche in atto nella città lagunare, un pellegrinaggio al Padiglione della nazione martoriata sia d’obbligo. Olena Zelenszka all’inaugurazione in un videomessaggio ha detto: «La bellezza e l’antichità dell’Ucraina vengono distrutte ogni giorno, non dalle forze della natura, ma dall’intervento criminale dell’aggressione… Stiamo tutti tessendo reti mentali per cercare di legare insieme le nostre vite che sono state strappate dall’attacco russo». Il piccolo spazio presenta 15 artisti neurodivergenti, pratiche tradizionali di sartoria domestica, video d’archivio prima e durante l’invasione russa e un’indagine sugli stereotipi e le aspettative imposti ai rifugiati europei.

Al momento della stesura di questo testo il Padiglione di Israele, per volere dell’artista e delle curatrici, rimane chiuso fino al rilascio degli ostaggi israeliani in mano ai terroristi di Hamas e fino al cessate il fuoco.