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Il dominio incontrastato del dollaro
Il peso della moneta americana ha un risvolto benefico (bene-rifugio) ma purtroppo anche degli svantaggi per il resto del mondo, vediamo quali
Federico Rampini
Il tramonto del dollaro continua a essere auspicato: a Pechino, Mosca, San Paolo del Brasile, Johannesburg. Non sembrano crederci molto, però, risparmiatori e investitori cinesi, russi, brasiliani o sudafricani. La moneta americana è di nuovo in una stagione di forza. Anche troppo forte, perché la sua rivalutazione rafforza fughe di capitali da altre parti del mondo. La spiegazione più diffusa sui mercati è legata a un fatto contingente: dal momento che la Federal Reserve ha rinviato la riduzione dei suoi tassi d’interesse (perché l’inflazione rimane troppo alta), i rendimenti in dollari sono più elevati che in tante altre monete. C’è quindi una convenienza evidente e immediata a investire capitali in America anziché in monete che rendono poco.
Il legame con i tassi della Fed è indubbio. Dietro però ci sono anche dei fattori più strutturali e di lungo periodo, che hanno contribuito a smentire tutte le profezie interessate sul declino del dollaro. La centralità di questa moneta, il suo ruolo economico e anche geopolitico, si misura dal peso dominante che continua ad avere come mezzo di pagamento nel commercio globale. Inoltre resta di gran lunga la principale valuta di riserva detenuta dalle banche centrali di tutto il mondo, incluse quelle di Paesi dichiaratamente antagonisti dell’America. Molte decine di Nazioni estere limitano di fatto la propria sovranità monetaria mantenendo un «aggancio» stabile nella parità di cambio fra la propria moneta e quella statunitense.
Tutti sono convinti che per adesso il dollaro sia un rifugio sicuro: perché rappresenta l’economia più ricca, la Nazione più potente, ed è la moneta di uno Stato di diritto dove gli investitori sono più tutelati che nei Paesi autoritari. La dimensione dell’economia Usa si affianca a quella dei suoi mercati finanziari, di gran lunga i più liquidi, cioè quelli dov’è più facile comprare e vendere titoli. A riprova che questo infonde un senso di sicurezza: perfino quando Wall Street fu l’epicentro della grande crisi finanziaria del 2008, la paura fece affluire capitali dal mondo intero verso il dollaro che si rivalutò del 26% verso le maggiori monete estere nei 12 mesi successivi a quella crisi.
Si parla spesso del ridimensionamento della superiorità americana rispetto a Cina, India, e altri Paesi emergenti. Senza dubbio gli Stati Uniti hanno visto ridursi il proprio vantaggio rispetto alla posizione che avevano alla fine della seconda guerra mondiale. Però il Pil statunitense è tuttora superiore a quello del numero due (Cina), del numero tre (Giappone) e del numero quattro (Germania) sommati insieme. La superiorità degli Usa rispetto all’Europa è andata addirittura aumentando dagli anni Ottanta ad oggi. In quanto a dimensioni dei mercati finanziari, tutti gli altri sono piccoli rispetto a quello americano, sia l’azionario sia soprattutto quello dei Treasury Bond: i titoli del Tesoro Usa in circolazione hanno raggiunto un valore di 27 trilioni, 27’000 miliardi di dollari.
Una superiorità di questo tipo tende ad auto-perpetuarsi, in mancanza di shock davvero fatali. Un precedente è interessante. L’economia americana sorpassò per la prima volta le dimensioni di quella britannica nel decennio 1890, eppure la sterlina inglese rimase la valuta dominante ancora per mezzo secolo. Per spodestarla e sostituirle il dollaro, ci vollero due guerre mondiali, la Grande Depressione, lo smantellamento graduale dell’impero e una crisi debitoria che portò Londra sull’orlo del default.
I vantaggi di avere una moneta egemone, quindi universalmente accettata, per l’America sono consistenti. Può indebitarsi senza sentire un vincolo esterno a questo indebitamento altrettanto stringente di altri Paesi. Per la verità il grosso del debito americano è finanziato da creditori domestici, a cominciare dalla banca centrale (Federal Reserve), dalla previdenza pubblica (Social Security) e dall’insieme dei fondi pensione. I creditori stranieri arrivano soltanto dopo, il primo è il Giappone, al secondo e al terzo posto si piazzano Cina e Arabia Saudita. La quota cinese non supera il 5% del totale, contrariamente alla diffusa leggenda sul «potere di ricatto» che Pechino avrebbe attraverso il suo credito verso Washington. Tuttavia è vero che l’abbondante investimento estero nei Treasury Bond e in altri titoli americani, contribuisce ad alimentare di fondi il Paese e indirettamente riduce il costo del denaro anche per le aziende e i consumatori Usa. Questo rischia di spingere l’America a comportamenti irresponsabili: attualmente l’Amministrazione Biden ha aumentato il deficit federale al 7% del Pil e il debito pubblico raggiungerà presto il 130% del Pil.
Per il resto del mondo, invece, il dominio del dollaro ha un risvolto benefico (bene-rifugio) ma anche degli svantaggi. Le altre Nazioni subiscono gli effetti della politica monetaria americana e devono tenerne conto. Washington vi aggiunge un uso strategico del dollaro come arma geopolitica: in particolare attraverso il ricorso a sanzioni, come accade contro Russia, Iran, Corea del Nord. Per queste ragioni da tempo i rivali dell’America propongono soluzioni alternative. La Cina cerca di promuovere l’uso del renminbi come mezzo di pagamento con i Paesi con cui commercia di più, c’è riuscita con la Russia. Uno dei luoghi dove si sente denunciare «l’imperialismo del dollaro» è il club dei Brics (Brasile Russia India Cina Sudafrica), che Xi Jinping tenta di trasformare in un contro-G7, l’architrave di un nuovo ordine internazionale antiamericano. Ai proclami non sono seguite trasformazioni significative, l’avanzata dei renminbi cinese e di altre monete come alternativa al dollaro per adesso avviene con estrema lentezza e fra tanti ostacoli.
Una ragione la si può vedere in quel che accade alle principali monete alternative. L’euro avrebbe dei titoli per affermare un ruolo internazionale più importante. Però è una moneta ancora assai giovane rispetto al dollaro, e nel corso della sua breve esistenza è già incappata in una crisi grave come quella del 2011-2012 quando alcuni Paesi furono vicini alla bancarotta sovrana.
Il renminbi ha un deficit di credibilità legato al regime autoritario di Pechino, per cui gli investitori non sono certi che i loro diritti saranno sempre tutelati. Inoltre la Repubblica Popolare non ha ancora abbracciato una completa libertà di movimento dei capitali. Dal 2022 ad oggi il renminbi è in calo del 6% (ma contando la deflazione dei prezzi cinesi la svalutazione reale è del 14%) e questo ha due conseguenze: una, gradita all’industria cinese, è l’aumento della competitività delle esportazioni; l’altra, sgradita, è una fuga di capitali provocata da sfiducia. Perciò le autorità cinesi cercano di limitare la svalutazione del renminbi. Tra l’altro sanno bene che questo deprezzamento fornisce argomenti al protezionismo americano ed europeo.
Il Giappone ha un problema analogo, lo yen è precipitato ai minimi ventennali. Questa debolezza è spiegabile con il differenziale dei tassi, Tokyo essendo rimasta a lungo ancorata a una politica di tassi negativi e più di recente un tasso zero. Anche per i giapponesi la svalutazione è un’arma a doppio taglio perché alimenta deflussi di capitali.