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L’arma a doppio taglio della propaganda

In tempo di guerra la verità diventa relativa, anche in Occidente, e si pongono due problemi: di sicurezza e di democrazia
/ 06/05/2024
Lucio Caracciolo

Fu Winston Churchill, che per una buona battuta avrebbe ucciso, a stabilire: «In guerra la verità è un bene talmente prezioso che va sempre accompagnato da una scorta di bugie». Nel vortice di guerre da cui siamo avvolti, l’accompagnamento è talmente stretto che sembra di non poter più scorgere la verità, o qualcosa che le assomigli. Sarà effetto della ipermediatizzazione in tempo reale di cui ogni forma di comunicazione ormai soffre. Ma c’è qualcosa di più, insieme grave e paradossale. Alla fine gli stessi comunicatori ufficiali o ufficiosi non sanno più se stanno mentendo o aderendo alla realtà. La narrazione confonde i narratori. La propaganda è inerente alla guerra, come a qualsiasi competizione. È anzi strumento sempre più rilevante per tenere insieme il fronte interno e demoralizzare l’avversario. Negli Stati chiusi, ipercontrollati, proviene da una fonte unica. Si presume che questa – Vladimir Putin o Xi Jinping, tanto per non fare nomi – sappia distinguerla dai fatti. Non sempre è così, perché più un sistema è controllato più gli inevitabili conflitti di potere fra gruppi e potentati diversi producono masse di disinformazione ed erigono cortine fumogene che possono oscurare la vista al leader massimo e ai suoi pretoriani. Ma questo è scontato: le autocrazie si autoraccontano.

Per nulla scontato dovrebbe essere questo dato in società aperte, più o meno liberali e democratiche. Insomma, quelle che noi privilegiati abitiamo. Uno scrutinio severo della comunicazione non solo ufficiale rivela che questo principio teorico viene costantemente violato. Al punto che non ci poniamo nemmeno più la domanda se la nostra rappresentazione della guerra sia abbastanza realistica o meno. Ciò pone un problema immediato, di sicurezza, e uno di prospettiva, intorno alla qualità della nostra democrazia. I due aspetti sono intrecciati. La questione di sicurezza consiste nel disporre o meno, da parte di chi combatte direttamente o indirettamente la guerra, di informazioni non troppo viziate dalla propaganda. Non tanto quella altrui, che si dovrebbe poter filtrare, quanto dalla propria. È umano infatti dover credere a ciò che si dice, entro certi limiti. Si può mentire, talvolta si deve, ma non sempre, né con tutti. Se a forza di ripetere concetti utili a rassicurare le nostre opinioni pubbliche – o a terrorizzarle per tenerle all’erta – la scorta di bugie sommerge la verità, si finisce in una realtà virtuale autocostruita. O dritti addosso al muro. E si rischia di perdere la guerra.

La questione democratica è più profonda. Una società libera e aperta – concetti ovviamente relativi – è la condizione necessaria anche se non sufficiente per allestire istituzioni democratiche. E viceversa, in una fecondazione reciproca. Renan diceva che la nazione è plebiscito di ogni giorno. Lo stesso vale, moltiplicato, per la democrazia. Per questo nelle democrazie europee siamo culturalmente ostili all’idea stessa di guerra: sappiamo che se si perde si perde anche la libertà. Ma una volta coinvolti in un conflitto, il ricorso alla propaganda – vulgo: allo scudo delle bugie – è inevitabile. È l’equivalente mediatico della mimetizzazione delle truppe e dei mezzi di combattimento. Saper sempre distinguere la necessità tattica dalla priorità strategica – restare democratici anche durante un conflitto, malgrado tutto – diventa impresa abbastanza ardua. Viene alla mente quanto un autorevole esponente dell’amministrazione Bush figlio spiegò a un giornalista del «New York Times», nell’ottobre 2004, quando l’impresa irachena, basata su false informazioni distillate dalle intelligence americana e britannica, stava già sprofondando verso il disastro: «La gente come lei vive in quella che noi chiamiamo la comunità basata sulla realtà», dove ci si illude «che le soluzioni emergano dal giudizioso studio di una realtà comprensibile. Oggi il mondo non funziona più così. Adesso noi siamo un impero. E mentre agiamo, creiamo la nostra realtà. E mentre voi giudiziosamente studiate quella realtà, noi agiamo di nuovo, producendo nuove realtà, che voi potrete studiare. È così che si sistemano le cose. Noi siamo gli attori della storia. E a voi, a tutti voi, resta di studiarla» (vedi R. Suskind, «Without a Doubt», «The New York Times», 17 ottobre 2004).

Con quella disfatta l’impero americano entrò in sofferenza. Oggi ne viviamo la fase acuta. L’eccesso di teatralizzazione, sovrapponendo realtà inventate ai fatti, provoca le dure repliche della storia. Qualche conferma dall’attualità. Pensiamo all’invasione russa dell’Ucraina. Dopo pochi giorni dall’inizio dell’«operazione militare speciale», e per molti mesi, i media occidentali erano quasi unanimi nel segnalare il disastro dell’esercito russo, che aspettava di essere accolto trionfalmente a Kiev dalle folle plaudenti. Descritta come uno strumento di cartapesta, corrotto e indisciplinato, l’armata di Putin era destinata alla sconfitta. Poi, nell’ultimo anno, le narrazioni si sono rovesciate. Adesso quelle stesse truppe sono dipinte in grado non solo di prendersi tutta l’Ucraina, ma di minacciare i paesi della Nato, dalla Lituania alla Polonia, dalla Finlandia alla Romania. Una delle due verità assolute era o è evidentemente molto più relativa e sfumata di come ce la siamo raccontata. Risultato: Emmanuel Macron dice e ripete di essere pronto a schierare sue truppe in Ucraina, equivalente logico dell’elevazione del conflitto a guerra mondiale fra potenze nucleari. Quasi fosse normale. Finire prigionieri delle proprie narrazioni è una scelta, non un destino. Troppo sperare in un soprassalto di sobrietà, di senso del limite? Parrebbe di sì. Purtroppo in guerra non ci sono gli esami di riparazione.